Premessa wikipedistica. Il
Red Dirt è un movimento musicale nato, cresciuto e sviluppatosi in Oklahoma,
centro nevralgico Stillwater. Il nome, per essere il più chiari possibili,
deriva dalla particolare colorazione del terreno che potreste notare qualora vi
addentraste nel territorio di questo stato del centro sud statunitense. E non è un
caso che la terra sia chiamata in causa per identificare un certo tipo di
musica. A prescindere, infatti, da quelle che sono le diverse definizioni date
dalla stampa specializzata al genere, le band appartenenti al Red Dirt, anche quelle maggiormente contaminate dal rock (e non sono poche) risultano comunque molto legate alle radici, miscelando in un
suono, peraltro, non univoco, sia alt-country che blues, folk, bluegrass e, in qualche caso, influenze messicane. Il
pistolotto che precede si è reso necessario per inquadrare, anche agli occhi di
chi non mastica musica americana dalla mattina alla sera, ciò che si trova fra
le note del quarto album a firma Turnpike Troubadours, band in circolazione dal
2007 e che ha visto militare fra le sue fila John Fullbright, uno dei
songwriter più interessanti attualmente in circolazione. Da un anonimato di
nicchia, la band dell’Oklahoma è riuscita con quest’ultima fatica ad
aggiudicarsi un posto di rilievo nelle classiche country e folk statunitensi, fiondandosi alle prime piazze di Billboard.
Coloro che a questo punto della recensione pensano di trovarsi di fronte a un
gruppo molto legato alla tradizione, finirebbero tuttavia per ricredersi. I Turnpike Troubadours,
infatti, possono somigliare, e a volte succede, come nell’inizialeThe Bird
Hunters, agli Old Crow Medicine Show, ma a differenza di quest’ultimi sfoggiano
un arsenale di chitarre elettriche mica da ridere. Se è vero che le suggestioni
country del disco ci sono e sono esaltate dallo splendido violino di Kyke Nix,
è anche vero che strada facendo si trovano episodi che si discostano, e non
poco, dal punto di partenza. The Mercury, ad esempio, è un rock dalle chitarre che
ringhiano, mentre il pensiero, in certi istanti, vola ai Violent Femmes. Doreen
è cow-punk usque ad finem e Down Here è un sostanzioso country-rock che guarda
con affetto agli anni ’70. La voce espressiva di Evan Felker, poi, fa da perfetto
collante a una scaletta di dodici canzoni che suonano varie, energiche e interpretate
con grande piglio dalla band. Nel finale, un cameo di John Fullbright all’armonica
impreziosisce la tirata country di Bossier City, che chiosa meravigliosamente
un gran disco e lascia nelle gambe una voglia irrefrenabile di ballare.
VOTO: 7
Blackswan, mercoledì 11/11/2015
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