Mi domando come sia
possibile che la maggior parte della stampa musicale italiana non si sia
accorta, o quasi, degli Yawpers. Perché, credetemi, questo disco è vera e
propria deflagrazione che vi lascerà storditi e attoniti. Non sto dicendo che
fra le dodici canzoni in scaletta si annidi qualcosa di inaudito (agli
ascoltatori più esperti non sfuggiranno echi di Hank Williams III, The
Blasters, Tito & Tarantula), sebbene poi l’impasto finale risulti originale
e variegato; ciò che davvero sorprende di questa band proveniente da Denver,
Colorado, sono la carica assassina, la forza travolgente e un’inesauribile energia
che, quando lo stereo passa l’ultima traccia del disco, lasciano l’ascoltatore
sudato ed esausto, come se l’avesse suonato lui. Ma andiamo con ordine. Gli
Yawpers sono un trio composto da un batterista (Noah Shomberg) e due
chitarristi acustici (Nate Cook, che è anche il cantante, e Jesse Parmet, che
usa la slide come un coltello). Non tragga in inganno però la dimensione
acustica del combo: questi tre ragazzi, dal look assolutamente improbabile,
picchiano come la più elettrica delle band punk metal. Il nome del gruppo, per
completezza di narrazione, è preso in prestito da Song To My Self, un poema di
Walt Whitman, che così recita: “I sound my barbaric yawp over the roofs of the
world”. Ed è chiaro fin da subito che, al di là di cotanto stuzzicante
riferimento letterario, Cook e compagnia bella abbiamo preso alla lettera il
desiderio far risuonare dal tetto del mondo il loro grido di rabbia e le loro
canzoni ben poco accomodanti. Un mondo, quello gridato dagli Yawpers, fatto di
tenebra e di rovina, in cui l’uomo americano ha perso il proprio sogno, finito
come un detrito ai margini di una qualsiasi periferia metropolitana. Definire
questa musica semplicemente punk rock sarebbe assai riduttivo: nel tritatutto
del combo di Denver ci finiscono il folk (azzardiamo la connotazione di sleazy
folk), il blues, il cow punk, il rock a stelle e strisce, lo psycho-billy, il
country e, ovviamente si, tanto punk. Il tutto strapazzato da un terzetto
incapace di essere lineare, che predilige percorsi a zig e zag e la vertigine
di continui saliscendi, e che restituisce un suono americano destrutturato e
privato di ogni epica. La voce di Cook è come il ringhio di un giaguaro,
Shomberg martella senza posa, e Parmet e la sua slide firmano i pezzi col
marchio del serial killer. Non c’è trucco e non c’è inganno: tutto suona in
presa diretta, tutto è sporco, genuino e feroce, e ogni svisata di bottleneck è
una stilettata che colpisce direttamente alla gola. Eccessivi? Forse. Torbidi e
sguaiati? Pure. Imperfetti? Certo, ed è proprio questo il bello, perché i tre
di Denver confezionano un disco puro e selvaggio, come non se ne sentivano da
tempo. Non saranno la salvezza del rock’n’roll, ma di sicuro sapranno destare
la vostra attenzione e farvi esclamare “ Cazzo, che bomba!”.
VOTO: 8
Blackswan, mercoledì 02/12/2015
5 commenti:
...devo proprio recuperarmeli!
@ Michele: non ne resterai deluso :)
“ Cazzo, che bomba!”. Grazie mille ;)
interessante . Non mi piace molto il cantante che a tratti fa questi vocalizzi che sono al limite del metal. Cioè quando canta "normalmente" è bravo .
@ Sally : mi fa piacere che ti sia piaciuto :)
@ Ale: perchè, tu ascolti cantanti che cantano normalmente? :)))
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