Arriva un momento nella
vita di un artista in cui questi tocca il vertice della propria creatività. A volte, il vertice corrisponde a un capolavoro, altre volte, no. Ma non è questa la
cosa importante: ciò che conta veramente è aver terminato un percorso, aver raggiunto
il punto d’arrivo di un cammino, lungo o breve che sia. Oltre non è possibile
andare, se non replicando se stessi all’infinito o normalizzandosi sulle
convenzioni. Non è questo il caso di PJ Harvey, una delle poche artiste in
circolazione la cui fonte di cambiamento appare inesauribile, la cui ricerca è sempre
puntata verso il futuro. Polly Jean è in continuo movimento e non sembra mai
trovar pace, vittima delle mille suggestioni che affollano la sua mente e che fanno
palpitare il suo cuore. Quando pensi che anche lei abbia raggiunto il vertice
(Rid Of Me, Stories From The City,Let England Shake), ecco che in lontananza spunta un’altra vetta
da scalare, un altro mistero da scoprire, un nuovo territorio da esplorare. The
Hope Six Demolition Project è la summa di tutto ciò che la Harvey ha fatto fino
a oggi ed è un disco costruito sulle stratificazioni e sui sedimenti di una
carriera in cui nulla è mai stato dato per scontato. Per capire come PJ sia
arrivata fino a qui non si può prescindere dalla sua storia, bisogna
ripercorrere le tappe, riprendere in mano gli umori selvaggi di Dry e Rid Of Me,
abbandonarsi ai fantasmi del lugubre White Chalk, perdersi nel magma sonoro di Let
England Shake. Ma The Hope Six Demolition Project, con il suo andamento
ondivago, i saliscendi umorali e gli slanci sperimentali, è anche la cartina di
tornasole per comprendere cosa accadrà nel domani della cantantessa del Dorset.
Non stiamo parlando di un disco semplice (ma quale disco di Polly Jean lo è mai
stato?), e anzi The Hope Six Demolition Project suona scorbutico e ben poco
condiscendente nei confronti delle mode. Ma se siamo ancora capaci di stupirci
di fronte a un mondo musicale che sembra aver esaurito la sua forza propulsiva
e in cui tutto, più o meno, è già stato raccontato, lo dobbiamo proprio a lavori
come questo. Appunti di viaggio fra zone di guerra (Afghanistan e Kosovo), lo
sguardo caustico verso l’America e le sue politiche allineate a un consumismo sfrenato
che si fa beffe dello stato sociale, e un libro di poesie (The Hollow Of The
Hand, in collaborazione con il fotografo Seamus Murphy), sono solo il punto di
partenza per un viaggio sonoro in cui sono le canzoni le vere protagoniste. Canzoni
che si nutrono di contrasti, in una tavolozza nella quale convivono colori brillanti,
abbagli di luce, cromature scintillanti, ma anche violente pennellate di nero
pece. Il fluire è ondivago e spiazzante, il mood mai allineato, gli arrangiamenti
stranianti e imprevedibili. Community Of Hope che apre con passo gagliardo e
una melodia corale che non lascia scampo, Ministry Of Defence con la cadenza
marziale di un Leviatano in musica, lo stato e la politica che tutto fagocitano
in stridenti note di sax, il folk alla Joan Baez in Near The Memorials To
Vietnam and Lincoln, l’equilibrio instabile di River Anacostia, in bilico fra
gospel, ritmo tribale e accorata invocazione, lo sprofondo malinconico di The
Orange Monkey, la ruvidezza rock adornata di handclapping di The Wheel sono
solo alcuni dei momenti più riusciti di un disco, il cui unico fille rouge è
rappresentato dall’uso ossessivo dei cori e dal sapiente arrangiamento dei
fiati (fra i crediti anche il nostro Enrico Gabrielli). La nuova PJ Harvey,
dicevamo, si porta dietro tutto il suo passato e lo rielabora, pensando
nuovamente al futuro. L’urgenza espressa a inizio carriera, quel broncio capace
di trasformarsi in ringhio, oggi è diventata un’altra cosa, un modo maturo e
più riflessivo di fare musica, rimescolando (ancora) le carte in tavola, per
prepararsi a una nuova partenza e a un nuovo cammino. Di vertice in vertice,
con la passione e l’incanto di chi riesce sempre a stupirci, raccontandoci
nuove storie. La metamorfosi continua.
VOTO: 8
Blackswan, sabato 30/04/2016