Texani di stanza a New York sin
dagli esordi del 2013 (Light Up Gold), i Parquet Courts tornano con la terza prova sulla lunga durata, o la quarta se
consideriamo Content Nausea del 2014, uscito
a nome Parkay Quarts (moniker con giochino lessicale). Human Performance è il secondo lavoro in collaborazione con la Rough
Trade dopo Monastic Living, Ep quasi
interamente strumentale, uscito l’anno scorso. Evidente il tentativo della
importante label inglese di rimettere nel proprio mirino un prodotto dalle
connotazioni genuinamente Rock.
La vicenda artistica dei Parquet
Courts inizia per volontà del cantante-chitarrista Andrew Savage già noto negli
ambienti Indie-Garage per l’appartenenza alla band Fergus & Geronimo (due
dischi all’attivo 2011/2012). Completano la line-up Austin Brown alla seconda
chitarra, Sean Heaton al basso e Max Savage alla batteria. Un classico
quartetto Rock d’altri tempi. Dietro ad ogni strumento quello che ci piace di più:
fisicità, sudore ed immenso rispetto per chi è venuto prima. Velvet Undergroud
e Pavement i gruppi di riferimento da santificare una volta al dì per Savage e
compagni. Chi ha a cuore un certo scompiglio creativo, quindi, non potrà che
gioire del ritorno dei Parquet Courts, veri guastafeste Garage-Rock
dell’infinito party modaiolo che ha corrotto l’anima sotterranea della Big
Apple. Classifiche preordinate prima promesse (il cosiddetto hype), poi
promosse dai media più conformisti di sempre con l’allontanamento graduale ma
ineluttabile dalle sonorità più ruvide e sanguigne che hanno contraddistinto la
New York che tutti abbiamo idolatrato. E’ in questo clima di finta e concitata
modernità che hanno già abdicato band (magnifiche ed eccitanti agli esordi)
come Strokes, Yeah Yeah Yeahs e Liars. Band che, spiace affermarlo, peggiorano
ad ogni nuova uscita nel vano tentativo di inseguire la sensazione musicale
della settimana in corso, ottenendo in cambio, di esser dimenticati in quella
successiva! Sembrerebbe che la città che non dorme mai si sia presa un
micidiale abbiocco e s’accontenti di una scena musicale assolutamente marginale
simile, per la pochezza di contenuti, a quelle di mille altre col passato
infinitamente meno glorioso.
Sono dunque preziosi gli album come
Human Performance che, badando al
sodo e rinunciando a trucchi ed effetti speciali, risultano essere ostinatamente controtendenza. Si inizia
l’ascolto con Dust, brano alla
maniera dei Polyrock, minimalismo ritmico Post-Punk fagocitato nel finale dal
rumore di fondo del traffico newyorchese. Una meraviglia per chi ha amato le
derive Arty della New Wave dei primi ’80, quando la sperimentazione, quella ad
altezza uomo, non prescindeva dalla godibilità dell’ascolto. Cambio di registro
e chitarre jingle-jangle per Human
Performance, secondo brano in scaletta, con Andrew Savage che giganteggia
alla voce. I Was Just Here, è uno dei
passaggi chiave del disco, pura contagiosissima schizofrenia slacker. Dentro,
tutto il potenziale raggiunto dalla band. Strizzano l’occhio all’estro degli
Urban Verbs e alle bizzarrie dei This Heat senza che questo pregiudichi
l’originalità della proposta. Il pezzo dura due minuti scarsi e ci viene da sorridere
pensando ad alcune band super recensite che s’arrovellano per intere carriere,
tra brani della durata media di un quarto d’ora, fredda elettronica e campionamenti
insensati, senza mai neppure sfiorare la geniale sintesi dei Parquet Courts. Proseguendo
nell’ascolto di questo fantastico disco ci sembrerà di sfogliare l’album dei
ricordi cui teniamo di più. Ci sono la frenesia urbana dei Talking Heads (One Man, No City), gli umori notturni di
un giovanissimo Lou Reed (Steady On My
Mind), la giocosità compiaciuta dei Modern Lovers (Pathos Prairie), il Punk’n’Roll depravato di Jim Carroll (Two Dead Cops) e tanto altro ancora da
scoprire e riscoprire ad ogni nuovo ascolto. New York ha finalmente un’altra
grande, grandissima Rock band. Era ora!
Voto: 8
Porter Stout, venerdì 08/04/2016
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