A prescindere da ogni altra considerazione, bisogna
riconoscere ad Alex Turner (Arctic Monkeys) e Miles Kanes (ex Little
Flames e ex The Rascals) una certa coerenza di fondo. Per i due (ex) enfant prodige
del brit pop, infatti, la musica non è solo una questione di contenuti ma
anche, e soprattutto, il veicolo di una cifra estetica hipster che pare
inscindibile dalle rispettive carriere. Basta dare una rapida occhiata alla
copertina di questo secondo capitolo del side project The Last Shadow Puppets,
per avere un breve riassunto delle puntate precedenti: un'immagine stilosa
e sensuale, che cattura l'attenzione più di mille parole. Marketing
all'ennesima potenza, quindi, con cui si afferma il principio che anche la
musica è uno status symbol, un capo di vestiario alla moda da indossare
per farsi notare. Che i due ragazzi in questione siano dotati di un discreto
talento (non esageriamo, però), è indubbio; ma è altrettanto vero che siano
riusciti a costruirsi una folgorante carriera, grazie a un indiscutibile
appeal mediatico, alla cassa di risonanza del web (la cui platea, come si
sa, non sempre pullula di grandi intenditori) e di una stampa
condiscendente, che non vede l'ora di tingere la penna d'inchiostro nel grande
calamaio delle "next big thing" e delle "new
sensation". Niente di male, per carità, soprattutto se poi arrivano le buone
canzoni, come avvenuto in passato sia per gli Arctic Monkeys e i The Rascals.
Questo secondo disco a firma The Last Shadow Puppets fa, invece, sorgere,
qualche perplessità. A distanza da ben otto anni da The Age Of Understatement
(2008), l'amalgama quasi cromosomica fra Turner e Kanes produce,
infatti, la copia sbiadita del suo predecessore, un sorta di seconda facciata,
che ha esattamente lo stesso suono, ma canzoni di minor mordente. La minestra,
e non potrebbe essere altrimenti, è ancora quella di un brit pop che oscilla
fra anni '60 e anni '80 (The Element Of Surprise suona a metà fra Duran Duran e
il David Bowie di Let's Dance), amalgamato da copiosi arrangiamenti
d'archi (a firma Owen Pallet) e da un mood da colonna sonora che cita di
continuo John Barry (Agente 007 e The Persuaders). Quando il giochino
riesce, il risultato non è disprezzabile, come, ad esempio, nell'accattivante
title track, nel riff smithiano di Aviation o nell'incalzante Bad Habits.
Eppure, anche nei momenti meglio riusciti, si ha sempre l'impressione
di ascoltare canzoni che si mettono in posa, che si passano la
mano fra i capelli per venire bene nel selfie. L'urgenza,
insomma, è quella di mostrare alla macchina fotografica il profilo migliore,
esattamente come la ragazza che balla sulla copertina dell'album. Ed è proprio
questo il limite di un disco che si ascolta con indifferenza e non decolla mai:
è algido e insignificante come lo sguardo di un fotomodello, buono solo
come sottofondo per una sfilata di moda o un'aperi-cena in corso Como.
VOTO: 5,5
Blackswan, mercoledì 06/04/2016
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