Dai Radiohead non sai mai
cosa aspettarti, perché se è indiscutibile la caratura della band, è anche vero
che la loro discografia è tutto tranne che lineare. Dagli esordi acerbi di Pablo
Honey (1993), alla prima consacrazione di The Bends (1995), fino al successo
planetario di Ok Computer (1997), uno dei dischi più rilevanti e seminali del
secolo scorso, si potrebbe raccontare una storia a sé stante, con un senso e
una fine. Poi, la narrazione cambiò di colpo, e con Kid A (2000) e Amnesiac
(2001), i Radiohead del nuovo millennio imboccarono la strada di una spinta sperimentazione
elettronica, senz’altro fascinosa, ma al contempo ostica e non di facile
assimilazione. Nel 2003, assistemmo a un nuovo cambio di registro, con un disco,
Hail to The Thief, che tornava a mischiare le carte, attingendo, per umore e
forma, a tutti i tre dischi precedenti. Con In Raimbows (2007), Thom Yorke e
soci tornarono a stupire, diffondendo l’album con il sistema pay what you want:
l’azzardo di una band consapevole della propria grandezza, con cui spiazzare il
consolidato star system e tastare il polso di una popolarità costantemente in
crescita. L’ultimo album in studio, The King Of Limbs (2011), aveva fatto
intravvedere, invece, qualche smagliatura creativa nel solido ordito di un gruppo (vedi
anche i lavori solisti di Yorke, Selway e la deriva cinematografica di Greenwood)
che probabilmente aveva bisogno di fermarsi un po’ a tirare il fiato e
riflettere su che strada imboccare. Uno iato durato sei anni e una spasmodica
attesa, dunque, per questo nuovo A Moon Shaped Pool, anticipato da numerosi rumours,
brani estrapolati da live e una boutade dal sapore dadaista, consistita, poco
prima dell’uscita dell’album, nella sparizione di Thom Yorke e soci dal web.
Coloro che fino a ieri dubitavano della
capacità dei Radiohead di rigenerarsi e temevano di trovarsi di fronte a un
gruppo in netta involuzione, oggi dovranno ricredersi. Perché A Moon Shaped
Pool è, infatti, un signor disco, decisamente il migliore dai tempi di Hail To
The Thief. In scaletta, undici brani la cui germinazione nasce da lontano (vedi
il recupero di True Love Waits) e che sono state pensate con calma, e con calma
strutturate. Mancano, tuttavia, e questo è il primo punto a favore del disco,
quegli sperimentalismi cervellotici che, soprattutto nell’ultimo periodo,
talvolta ammantavano di freddezza e affliggevano con una punta di noia le
canzoni della band. A Moon Shaped Pool è, invece, un disco misurato, una sorta
di crocevia fra le due anime dei Radiohead, una summa equilibrata fra architetture
elettroniche e ballate dal mood malinconico, insomma, il punto esatto di fusione fra Ok
Computer e Kid A.
C’è, dunque, un gruppo rodatissimo, che sa mediare magistralmente
fra due opposte pulsioni compositive, e c’è un leader, Thom Yorke che, mai così
sofferente e dimesso (la storia d’amore Rachel Owen è finita), segna indelebilmente
ogni singola canzone con la propria voce quasi rotta dal pianto. Vive un’anima
addolorata dietro A Moon Shaped Pool e una malinconia stordente che tutto
pervade. A partire dall’apocalisse pop di Burn The Witch, che, tra archi e
campionamenti, apparecchia un disco carico di inquietudine, per poi proseguire
con Daydreaming, una ballata arresa, impossibile da ascoltare senza inumidirsi
gli occhi (ma uno splendido bridge di piano allontana il rischio del melenso). Due
brani eccezionali che testimoniano di una stato di forma creativo eccellente.
Non tutto A Moon Shaped Pool è, però, a questo livello, ma anche nei momenti
meno ispirati (Desert Island Disk, Tinker Tailor…) non c’è comunque una canzone
da buttare. Altri tre episodi, a mio avviso, meritano la pena di essere
ricordati. Il primo è Ful Stop, col suo senso di tragedia imminente, la ritmica
nervosa, il basso pulsante e l’intreccio finale fra la chitarra di Greenwood a
sostenere il lamento di Yorke; il secondo è Identikit, brano nobilitato da un
ricamo chitarristico di Greenwood che ha del miracoloso; e per finire, True
Love Waits, comparsa per la prima volta come chiosa al live del 2001, I Might Be
Wrong, e qui riproposta in un’inedita versione in studio, con un magnifico
arrangiamento per pianoforte.
Non so se con A Moon Shaped Pool si possa parlare
di disco della rinascita, perché è evidente che i Radiohead non sono mai morti;
ma il disco è talmente convincente che ora resta solo da capire, quale strada
vorrà imboccare la band, se cioè avranno intenzione di stupirci ancora o
diversamente acquietarsi su questa misura, che si è rivelata una formula
vincente. Se questo è il livello, buona la seconda.
VOTO: 8
Blackswan, sabato 14/05/2016
5 commenti:
King of limbs era stato l'unico album che mi aveva lasciato freddo.
Concordo: Questo è il migliore dai tempi di Hail To The Thief. Ho ritrovato quelle sensazioni avvolgenti, quel calore misto a brividi che ormai in pochi sanno trasmettere con la musica.
@ Lucien: dopo King Of The Limbs, che non mi era piaciuto, questo disco è davvero una grande sorpresa.I radiohead sono tornati a fare quello che sanno fare meglio: toccare le corde della malinconia. In questo, sono un gruppo inarrivabile.
Un parere quasi condivisibile?
Miracolo numero 1.
Blackswan che ascolta un disco uscito solo in rete e non ancora in versione fisica?
Miracolo numero 2. :)
@ Marco: il miracolo è che ti sei stranamente messo ad ascoltare musica decente :)Poi, il disco, a giugno, lo comprerò :)
A me sto disco me mette ansia e mi piace. :)
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