Qualche giorno fa, a proposito del nuovo disco di
Bombino, scrivevo che il movimento rock di matrice subsahariana sembra
aver subito una sorta di normalizzazione (o di occidentalizzazione,
vedete voi), che se da un lato ha favorito la divulgazione
e l'ottimo riscontro commerciale del genere, per converso ha finito
per privare questa musica del suo fascino primigenio. Sull'onda lunga del
successo di artisti come il citato Bombino, i Tinariwen e i Tamikrest,
esce in questi giorni il disco d'esordio degli Imarhan, giovane quintetto
proveniente da Tamanrassett, cittadina dell'Algeria meridionale, immortalata
dall'omonimo film del regista Merzak Allouache. E proprio mentre ci stiamo
domandando se questo genere, privato ormai della sua originaria potenza, abbia
ancora la forza di stupirci e fascinarci, ecco che arriva un disco d'esordio che
recupera in parte quanto si era perduto negli ultimi anni. Imarhan, che viene
prodotto da Eyadou Ag Leche (Tinariwen) e riceve la benedizione urbi et orbi da
parte di Howe Gelb (leggere le note all'interno del booklet) possiede,
infatti, una forza inaspettata, recupera quell'indole folk, da altri
abbondantemente annacquata, e fila via dritto attraverso il solleone e le
sabbie del Sahara, concedendo alle orecchie, prevalentemente addomesticate, del
pubblico occidentale solo un paio di funkettoni da sballo (la title track e
Tahabort). La parte cospicua della scaletta è, invece, composta da ballate
che profumano di roccia riarsa, immensi orizzonti desolati, cieli stellati a
perdita d'occhio, e che sono sostenute da pulsanti linee di basso e chitarre fingerpicking
in odore di blues e psichedelia. Come ciliegia sulla torta, un missaggio e una
masterizzazione limpidissimi, che colgono ogni più piccola sfumatura ed
esaltano l'ascolto in cuffia. Se non vi siete ancora assuefatti al genere,
questo è senz'altro il disco che fa per voi.
VOTO: 7,5
Blackswan, venerdì 13/05/2016
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