Ecco uno di quegli esordi
destinati ad essere ricordati, il primo tassello di una sfavillante carriera se
farà il botto, prezioso oggetto di culto se invece dovessero filarselo in pochi.
E’ comunque impossibile rimanere indifferenti ascoltando un disco come questo. I
responsabili sono tre ragazzi londinesi, si fanno chiamare YAK e sono una forza
della natura: Oliver “Oli” Burslem (chitarra e voce), frontman carismatico e belloccio
(una certa somiglianza con il Mick Jagger di un secolo fa), Andy Jones al basso
e Elliot Rawson alle percussioni. Grazie all’Ep No del 2015, realizzato con la Third Man Records di Jack White e una
intensissima attività live (chi ha assisto assicura che sono fenomenali), hanno
bruciato le tappe costruendosi una solida reputazione che li ha portati ad aprire
i concerti per band affermate come Peace e Last Shadow Puppets.
L’ennesima “Next Big
Thing” che la stampa inglese ci propina una volta al mese verrebbe da
ironizzare ma, vi assicuro, stavolta ci hanno preso: gli YAK vanno ben oltre i
facili sensazionalismi e sono di già una gran
cosa. Al banco regia siede Steve Mackey storico bassista dei Pulp e produttore
di successo con M.I.A., Florence The Machine e Palma Violets. Il video della
title track è stato girato invece da Douglas Hart, personaggio molto
noto anche per aver fatto parte dei Jesus & Mary Chain. Sono collaborazioni
di prestigio e inaspettate per un disco d’esordio dichiaratamente autoprodotto
in nome del “Do It Yourself”. Che si tratti di spirito ribelle o di una precisa
strategia di mercato non è dato sapere e poco importa, questa è una band davvero
elettrizzante e dal gran potenziale come testimoniano i 13 brani di Alas Salvation. 40 minuti dal forte
impatto emotivo, dalle molteplici sfumature e notevoli soluzioni ritmiche e
melodiche.
Quando parte Victorious (National Anthem) difficile
non saltare sulla sedia: chitarre grattuggiate, canto sguaiato, sezione ritmica
da manicomio criminale, un anthem di straordinaria potenza, altre band ci
avrebbe tirato fuori mezza facciata del disco, loro no: una scheggia
anfetaminica di unminutoecinquantasei per passare urgentemente ad altro. Ad
altro, si fa per dire, Hungry Heart (il
primo singolo estratto) è, se vogliamo, ancora più urticante, immaginatevi il
Johnny Rotten più declamatorio istigato dal fuzz dei Mudhoney e avrete un’idea.
L’immediatezza di Use Somebody infettata
di Punk settantasettino alla Johnny Thunders ci tiene incollati alle
casse fino ad Interlude I che
introduce la decadente Roll Another.
Da qui in poi è tutto un susseguirsi di riferimenti diversissimi e a volte stranianti
come nella minacciosa Curtain Twitcher
(Caveniana fin dentro al midollo) che getta ombre sinistre sul clima generale
del disco, la carezzevole psichedelia di Take
It, ballata alla maniera dei Radiohead di Go To Sleep, interviene subito dopo a rasserenare gli animi mentre Harbour The Feeling è un pezzo contagioso come pochi e pare uscito
da Songs For The Deaf dei Queens Of
The Stone Age. Gli esercizi di stile proseguono con Smile, spaghetti-western in salsa P’n’R come sapevano fare i Thin
White Rope, la Velvettiana Doo Wah e infine
con Please Don't Wait For Me:
vocalità languide e intemperanze improvvise, muri di feedback e svagatezze
acustiche, un saliscendi umorale che ben rappresenta il mondo sonoro degli YAK.
Band e disco da annoverare tra le novità più eccitanti del 2016 e, considerando
il panorama attuale d’oltremanica in fatto di sonorità smaccatamente Rock (vedi
i deludenti lavori di Primal Scream e Virginmarys), è grasso che cola.
Voto: 8.5
Porter Strout, mercoledì 25/05/2016
1 commento:
Ci ho messo un pò a entrare nel mood del disco (ero immerso anche in ascolti country), ma adesso mi sta piacendo. Quattro/cinque pezzi sono davvero di livello, loro rozzi quanto basta a farmi inturgidire i capezzoli e la copertina spettacolare. Bella lì!
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