Ancora non se ne parla
abbastanza, ma fra brevissimo, ne sono sicuro, gli Shelters riempiranno le
pagine delle riviste specializzate. Formatisi nel 2015 a Los Angeles, la band
composta da Chase Simpson, Josh Jove, Sebastian Harris, e Jacob Pillot ha,
infatti, goduto fin dagli esordi di uno sponsor coi fiocchi. Stiamo parlando di
un certo Tom Petty che, dopo averli visti suonare dal vivo, se ne è
letteralmente innamorato, tanto da mettere a disposizione il suo studio casalingo,
dove gli Shelters hanno potuto registrare un primo EP. Il rapporto fra la band
e il chitarrista si è così intensificato, tanto che Petty non solo li ha voluti
in tour a supporto dei suoi Mudcrutch, ma ha messo mano anche alla produzione
del loro disco d’esordio. The Shelters, tuttavia, si muove lontano dai
territori frequentati dalla musica del biondo songwriter e sembra guardare
maggiormente dall’altra parte dell’oceano, verso un british pop rock innervato
di chitarre rombanti e attraversato da visioni psichedeliche. Niente però di
particolarmente vintage: il disco suona freschissimo, le canzoni sono di ottima
fattura e i quattro ragazzi ci sanno fare. Vero è che il disco si muove su quel
sottile confine che separa il rock dal pop e che, a prescindere dal suono
graffiante, sono le melodie a farla da padrone; però è vero, per converso, che
la qualità di scrittura resta sempre di ottimo livello e la scaletta è solida e
non prevede filler. Rebel Heart, singolo apripista, raggiunge l'esatto punto di
fusione fra il jingle jangle dal sapore byrdsiano e una melodia brit pop dagli
accenti vagamente psichedelici, mentre Birdwatching pigia il piede sull’acceleratore
(il cantato nasale ricorda Petty, ma si intravedono anche echi di Weezer e
Oasis), e Liar, invece, si gioca un grande ritornello attraversato ancora una
volta da echi psichedelici. Una tripletta iniziale che non lascia indifferenti
e che ben dispone all’ascolto di quello che verrà. L’amore verso il pop rock
britannico diviene esplicito con la bella cover di Nothin’ In The World Can
Stop Me Worryin’ ‘Bout That Girl dei Kinks (l’originale la trovate su Kinda
Kinks del 1965). Surely Burn è ancora indebitata con gli anni ’60, i Kinks e i
Beatles. The Gosth Is Gone, che con i suoi cinque minuti abbondanti è il brano
più lungo del disco, chiama in causa addirittura i Doors e una vena di
psichedelia notturna scossa da un’improvvisa deflagrazione chitarristica. Gold
e Dandelion Ridge sono beatlesiane al midollo, e anche Fortune Teller deriva
geneticamente dalla penna di Lennon. Le conclusive Born To Fly e Down sono le
più pettyane del lotto, con la prima che replica, nota per nota, l’intro di
Love Is A Long Road (se non ci fosse stato Tom Petty in cabina di regia sarebbe
partita una causa civile per plagio). A prescindere dalle innumerevoli
citazioni (o forse proprio per questo), il disco funziona meravigliosamente,
suona grintoso e solare, e, grazie ai tanti ganci melodici e a un mood da
finestrini abbassati e capelli al vento, si accredita per essere uno degli
album che maggiormente segnerà la nostra estate in rock.
VOTO: 7
Blackswan, domenica 19/06/2016
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