Al Scorch è un ragazzone
dal fisico massiccio, il sorriso aperto e un marcato accento del Midwest. E’ nato
e cresciuto a Chicago, compone canzoni dai contenuti, spesso e volentieri,
socio-politici, e suona la chitarra e il banjo. Anzi, quest’ultimo strumento lo
suona così bene che su di lui, negli States, si stanno spendendo fiumi di
parole d’elogio. L’Huffington
Post, ad esempio, lo definisce “…the finest country-punk-folk-bluegrass banjo
player in the country”. Parole grosse, insomma, ma non spese a casaccio.
Scorch, infatti, è un fenomeno di banjoista, forse non ancora ai livelli del
leggendario Earl Scruggs, tanto per citare uno dei virtuosi dello strumento, ma
vista la giovane età, ha davanti a sè ancora notevoli margini di miglioramento. Circle Round The Signs è il suo secondo album ed esce per la Bloodshot
Records, la prestigiosa casa discografica, che ha sotto contratto il meglio
della gioventù a stelle e strisce (tra cui The Yawpers, Banditos e Andrew Bird).
Dicevamo prima delle notevoli doti tecniche di Scorch, che in questo disco sono
immediatamente rilevabili, fin dal primo brano: una velocità d’esecuzione, in
molti casi, adrenalinica e ciò nonostante un tocco pulitissimo (provare l’ascolto
in cuffia). Ma non sono solo i virtuosismi a rendere appetibile l’ascolto. Il
nostro, infatti, imbastisce una scaletta varia e divertente, nella quale riesce
a fondere, con inusuale equilibrio, diversi elementi all’apparenza lontanissimi
fra loro: il bluegrass (Lost At Sea), il jazz (Everybody Out), l’americana più
tradizionale (Lonesome Low) e il punk. Si, avete letto bene: punk.
Non ci vuole
molto, infatti, per capire che la conclusiva Love After Death, ad esempio, paga
un debito altissimo agli irlandesi Pogues, così come certe accelerazioni, presenti
in tutto il disco (il sali e scendi di Insomnia, l’iniziale Pennsylvania Turnpike,
la fulminante Want One, un minuto e mezzo di divertimento puro) sono, per
indole, più vicine ai Black Flag che a sonorità roots. Ma che Scorch abbia
inclinazioni punk lo si comprende anche dalla durata della canzoni, mediamente
sui due minuti, per una scaletta che fulmina l’ascoltatore con una mezz’ora di
ottima musica. Merito anche della The Country Soul Ensemble, band che fa da
spalla al musicista chicagoano, bravissima ad assecondare i repentini cambi di
tempo e di umore, e ad adattarsi allo spirito ondivago delle diverse canzoni
(la militanza politica declamata nella struggente Poverty Draft, e resa
toccante dallo splendido assolo di corno francese di Justin Almosch, e il
divertissement bluegrass di Slipknot, in cui la band incornicia fra armonica e
violini il rapidissimo fingerpicking di Scorch). Un disco interamente acustico,
suonato con gli strumenti della tradizione, ma il cui risultato finale ci
suggerisce l’energia, la forza e la passione di una rock’n’roll band. Così possiamo
dire, senza timore di essere smentiti, che la variegata e interessante scena musicale di
Chicago ha trovato un altro eroe.
VOTO: 8
Blackswan, sabato 23/07/2016
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