sabato 23 luglio 2016

AL SCORCH – CIRCLE ROUND THE SIGNS



Al Scorch è un ragazzone dal fisico massiccio, il sorriso aperto e un marcato accento del Midwest. E’ nato e cresciuto a Chicago, compone canzoni dai contenuti, spesso e volentieri, socio-politici, e suona la chitarra e il banjo. Anzi, quest’ultimo strumento lo suona così bene che su di lui, negli States, si stanno spendendo fiumi di parole d’elogio. L’Huffington Post, ad esempio, lo definisce “…the finest country-punk-folk-bluegrass banjo player in the country”. Parole grosse, insomma, ma non spese a casaccio. Scorch, infatti, è un fenomeno di banjoista, forse non ancora ai livelli del leggendario Earl Scruggs, tanto per citare uno dei virtuosi dello strumento, ma vista la giovane età, ha davanti a sè ancora notevoli margini di miglioramento. Circle Round The Signs è il suo secondo album ed esce per la Bloodshot Records, la prestigiosa casa discografica, che ha sotto contratto il meglio della gioventù a stelle e strisce (tra cui The Yawpers, Banditos e Andrew Bird). Dicevamo prima delle notevoli doti tecniche di Scorch, che in questo disco sono immediatamente rilevabili, fin dal primo brano: una velocità d’esecuzione, in molti casi, adrenalinica e ciò nonostante un tocco pulitissimo (provare l’ascolto in cuffia). Ma non sono solo i virtuosismi a rendere appetibile l’ascolto. Il nostro, infatti, imbastisce una scaletta varia e divertente, nella quale riesce a fondere, con inusuale equilibrio, diversi elementi all’apparenza lontanissimi fra loro: il bluegrass (Lost At Sea), il jazz (Everybody Out), l’americana più tradizionale (Lonesome Low) e il punk. Si, avete letto bene: punk. 




Non ci vuole molto, infatti, per capire che la conclusiva Love After Death, ad esempio, paga un debito altissimo agli irlandesi Pogues, così come certe accelerazioni, presenti in tutto il disco (il sali e scendi di Insomnia, l’iniziale Pennsylvania Turnpike, la fulminante Want One, un minuto e mezzo di divertimento puro) sono, per indole, più vicine ai Black Flag che a sonorità roots. Ma che Scorch abbia inclinazioni punk lo si comprende anche dalla durata della canzoni, mediamente sui due minuti, per una scaletta che fulmina l’ascoltatore con una mezz’ora di ottima musica. Merito anche della The Country Soul Ensemble, band che fa da spalla al musicista chicagoano, bravissima ad assecondare i repentini cambi di tempo e di umore, e ad adattarsi allo spirito ondivago delle diverse canzoni (la militanza politica declamata nella struggente Poverty Draft, e resa toccante dallo splendido assolo di corno francese di Justin Almosch, e il divertissement bluegrass di Slipknot, in cui la band incornicia fra armonica e violini il rapidissimo fingerpicking di Scorch). Un disco interamente acustico, suonato con gli strumenti della tradizione, ma il cui risultato finale ci suggerisce l’energia, la forza e la passione di una rock’n’roll band. Così possiamo dire, senza timore di essere smentiti, che la variegata e interessante scena musicale di Chicago ha trovato un altro eroe.

VOTO: 8





Blackswan, sabato 23/07/2016

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