Usciamo immediatamente
dall’equivoco: definire Brandy Clark come la salvezza dell’alternative country
e ricoprirla di elogi come gran parte della stampa americana (e non solo) sta
facendo (vedasi, ad esempio, Rolling Stone) sembra essere la classica pisciata
fuori dal vaso. La Clark è senz’altro un’artista molto in voga, ha scritto
canzoni un po’ per tutti, da Miranda Lambert a Billy Carrington, solo per citare un paio di
nomi, e ha ricevuto anche una nomination ai Grammy Awards 2015 come Best New
Artist. Già, perché stufa del ruolo di ghost writer all’ombra di più celebri
colleghi, Brandy ha deciso di crearsi una propria carriera solista, pubblicando
prima un Ep nel 2012, e poi un full lenght dal titolo 12 Stories, uscito nel 2013.
Big Day In A Small Town è, dunque, la seconda prova in studio di questa
cantante originaria di Morton (Washington), ma da anni di stanza a Nashville,
che sta vivendo, da qualche tempo, sulla cresta dell’onda. Eppure, nonostante
la quasi quarantenne Clark sia dotata di una voce davvero niente male e goda di
ottima stampa, parlare di americana a proposito di questo disco è un po’ come
definire 50 Sfumature Di Grigio un film porno. Infatti, di country, nelle
undici canzoni che compongono la scaletta, c’è poco o niente, e quel che c’è,
peraltro, è concentrato tutto nella comparsa estemporanea di qualche strumento
della tradizione. Allora, diciamolo chiaramente, visto che non abbiamo case
discografiche che ci sponsorizzano per scrivere cazzate: Big Day In A Small
Town è, sic et simpliciter, un disco di pop. Sotto quest’ottica, un po’ controcorrente,
possiamo metterci a fare un ragionamento più serio. Perché, quando è chiaro che
di roots in questo disco non c’è nemmeno l’ombra, possiamo, senza creare false
aspettative, giudicare la musica della cantautrice nashvilliana solo per ciò
che è in realtà. Brandy Clark allestisce, dunque, un filotto di canzoni
impeccabili, patinate, pulite, arrangiate con gusto e suonate da una band di
fuoriclasse (Fred Eltringham alla batteria, Keith Gattis alla chitarra, John
Deaderick al piano). Ma il piano di lettura, l’unico, resta quello del
passaggio radiofonico, del sottofondo gradevole, di una musica che vive nell’immediatezza
dell’ascolto, e poi non lascia altro. Non c’è nulla di male in questo e personalmente
non ho preconcetti. Il punto, semmai, è non vendere per americana ciò che
americana non è (d’altra parte, come ben sanno i nostri lettori, tutto ciò che
arriva da Nashville deve essere preso con le molle). In questo album, infatti,
non c’è un capello fuori posto, tutto il contrario, cioè, di quell’immaginario
a stelle e strisce composto di highways, decapottabili, orizzonti a perdita d’occhio
e vento che scompiglia la zazzera. Allora, se cercate un buon disco di country,
andate a bussare a un’altra porta. Se, invece, volete un po’ di zucchero nella
vostra giornata, Brandy Clark farà senz’altro per voi.
VOTO: 6
Blackswan, domenica 14/08/2016
2 commenti:
Buon ferragosto Nick.
@ Bartolo: a te, mon amì! :)
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