giovedì 22 settembre 2016

DEVON ALLMAN – RIDE OR DIE



Se è vero che spesso le colpe dei padri ricadono sui figli, è inevitabile che la stessa cosa possa accadere coi meriti. Il mondo, infatti, è pieno di figli che patiscono la gloria paterna (o materna) e che vivono di luce riflessa, sotterrati quasi dal confronto e dal ricordo di chi li ha preceduti. Succede nella vita di tutti i giorni, succede in ogni ambito artistico e quindi, è inevitabile succeda anche nello spietato mondo dello showbiz. Certo, un nome famoso alle spalle inizialmente può anche essere un vantaggio, una sorta di passepartout che apre porte e agevola contatti e conoscenze; ma, alla lunga, la parentela logora chi ce l’ha, e c’è sempre un target ingombrante a cui puntare e con cui misurarsi. Non dev’essere stato facile per Devon Allman, quindi, scrollarsi di dosso la sua pesante eredità, visto che non solo è figlio del grande Gregg, leader indiscusso della Allman Brothers Band (e sulla cresta dell'onda ormai da più di quarant'anni), ma, avendo scelto come strumento principale la sei corde,  si ritrova fra i parenti  stretti anche il compianto zio Duane, uno fra i più funambolici chitarristi che la storia ricordi. In una situazione di questo tipo, si ha sempre l'impressione che  la propria identità artistica viva di riflesso o all'ombra del passato glorioso  del proprio parentado e che qualunque cosa uno faccia, anche se di qualità, alla  resa dei conti finirà sempre per essere bollata come l'opera del figlio di..., con buona pace della propria indipendenza creativa. Per non parlare poi delle male lingue, sempre pronte a indicarti come un raccomandato, uno che non sarebbe arrivato da nessuna parte senza una cospicua dose di nepotismo. Devon Allman, a dispetto dell'ingombrante cognome, è invece un musicista che, senza aver disconosciuto le proprie radici, è riuscito a crearsi, disco dopo disco, una ben delineata personalità, e questo Ride Or Die, terzo album in solitaria, ne è una incontrovertibile conferma. Il southern rock, da sempre respirato tra le mura di casa e geneticamente connaturato al personaggio (Devon, tra l’altro, annovera anche una militanza con la Royal  Southern Brotherhood), è presente ma è marginale, così come il rock blues, centrale nel precedente Ragged & Dirty, è solo una delle componenti del nuovo disco. 




Che, invece, è vario, estremamente vario, e racchiude tutte le influenze che hanno caratterizzato la crescita artistica di Devon, dal rock al blues, dall’alternative anni ’90 fino al soul, i cui suoni sono forse quelli maggiormente riconoscibili fra le canzoni in scaletta (non è un caso il tatuaggio di Curtis Mayfield che Devon esibisce orgogliosamente sul bicipite sinistro). Insomma, è un po’ come se il giovane Allman fosse entrato in sala di registrazione, tenendo sotto braccio la sua collezione di dischi, quella musica che ha amato da giovane, quei musicisti di cui teneva il poster in camera. Se l'iniziale Say Your Prayers  o Galaxies mostrano i muscoli di un rock blues tradizionale, riletto, però, con intelligenza e modernità, il resto del disco sfoggia, invece, il composito repertorio di idee di Devon, che travalica gli steccati del dna, e ci regala una prova tanto eterogenea quanto solida. Find Ourselves, ad esempio, è un pimpante rock soul dal sapore springsteeniano, Lost esplora brillantemente il tema della ballata , utilizzando il pedale talk-box, Shattered Times è un funky bollente, Watch What You Say è un riuscitissimo patchwork fra chitarre acustiche ed elettriche, beat e rock blues, ritmo e melodia. C’è, poi, lo swing pianistico di Hold Me, la dodici corde nel mid tempo di Live From the Heart e l’omaggio a Curtis Mayfield in Pleasure And Pain. Chiude il disco un’inaspettata cover, a dire il vero, non particolarmente brillante, di A Night Like This dei Cure: Devon vuole rendere onore a un mito di giovinezza, ma la canzone, troppo lontana dalle sue corde, perde il senso di imminente tragedia che pervadeva l’originale, finendo per suonare innocua e priva di mordente. A prescindere da questo passo falso, il risultato finale è però più che buono. Ride Or Die si sviluppa attraverso una scaletta varia e divertente, mentre la voce  possente di Devon e la sua chitarra, capace ormai di adattarsi a diversi registri, esprimono la maturità e la forza espressiva di chi non deve più nulla a nessuno. A prescindere dal cognome.

VOTO: 7





Blackswan, giovedì 22/09/2016

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