Jeff Tweedy ha ormai
condotto i suoi Wilco in quel circolo di band culto della musica americana
attuale. Se dovessi fare un paragone per la devozione dei fans e per le
aspettative che ogni nuova uscita discografica alimenta, mi verrebbero in mente
i Pearl Jam; sono band, insomma, che ha costruito (eccome), in oltre venti anni
di carriera, una reputazione mai svenduta al mainstream e soprattutto fondata
su dischi che rappresentano quanto di meglio i famosi anni ’90 hanno saputo
sfornare.
Ora, recensire Schmilco non è impresa facile, perché non
si può non contestualizzarlo. Fosse, infatti, stato partorito come opera prima
da una band all’esordio, me la sarei cavata con un’attrazione fatale per
l’alt-country, genere che, per essere chiari, sembra aver fatto i suoi giorni
ed essere stato omogeneizzato all’interno del moniker “americana”. Solo che Shmilco è il nuovo disco degli Wilco e
la nota più importante è che fa seguito, in maniera molto veloce ed inattesa, a
quel Star Wars pubblicato come un fulmine a ciel sereno nel
luglio 2015 (cioè un anno fa) e che, sinceramente, mi aveva lasciato molte
perplessità. Ecco, dimenticatevi quel disco, perché Shmilco ne è l’esatto contrario: acustico, paziente, in una parola
sola alt-country. Soprattutto, l’impressione è che Tweedy, nonostante le fughe
post-rock degli ultimi lavori, sia ancora sublime quando si cimenta nella
situazione che meglio conosce, chitarra acustica e voce a disegnare melodie che
sembrano sbilenche ma che al terzo ascolto entrano prepotentemente nel
cervello. Dunque, una specie di disco solista? Assolutamente no. Provate ad
isolarvi dal mondo esterno ascoltandovi questo album in cuffia: scoprirete
arrangiamenti al limite del maniacale, con organi che entrano ed escono dal mix
in maniera soffusa, chitarre che reggono la struttura e soprattutto un
batterista che, disco dopo disco, attraverso il proprio talento, rende ogni
canzone un pezzo unico da ascoltare.
Così canzoni come “If I
ever was a child” o “Cry all day” sono firme indelebili del talento di Tweedy,
così come fa parte della discografia recente degli Wilco la rumorosa “Common
Sense”, che comunque sembra addomesticare i suoni al tepore confidenziale del
disco. Il problema, perché qualche problema c’è, è che la seconda parte della
scaletta non è così ispirata e anzi risente di una scrittura omologata alla
grande sequenza iniziale. Considerato che Shmilco
esce fuori dalle session di Star Wars
(“mirabile dictu” dicevano i latini) forse Tweedy avrebbe potuto ugualmente
far uscire due dischi in breve tempo, mescolando però un po’ più le carte,
perché qualche virata elettrica del suo predecessore avrebbe reso meno monotono
il finale di Shmilco. Però, visto che
la classe non è acqua, non si può chiedere di più a chi sta sui palchi da così
tanto tempo e ha ancora (senza dubbio) la penna buona per scrivere queste cose.
Ultima nota, la copertina di Joan Cornellà, con una vena ironica che mi fa
pensare che gli Wilco, forse, un disco come Star
Wars non lo partoriranno più, avendo ritrovato la vecchia, cara, retta
via.
VOTO: 7
Melonstone, venerdì 23/09/2016
2 commenti:
Dopo Bon Iver, ci ritroviamo d'accordo anche sui Wilco, tornati a fare un buon disco che fa dimenticare il d'altra parte dimenticabile Star Wars.
Comincio ad avere paura! :D
@ Marco: ma se leggi bene la firma in calce all'articolo, scoprirai che non l'ho scritto io :)
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