Chris Stalcup molto
probabilmente sbarca il lunario con un’altra professione. Già, perché Downhearted Fools è il disco, detto con
tutto il rispetto e l’ammirazione possibile, di un artigiano del rock americano
che dà l’impressione di utilizzare la musica come un mezzo personale, un modo
per raccontare le giornate noiose in Georgia, i vicini di casa intenti a
risolvere chissà quale problema, la birra al pub, la pesca della domenica
mattina al fiume. A voler ridurre all’osso questo Downhearted Fools ci si trova di fronte infatti a un onesto
cesellatore di parole e note, uno di quelli insomma che passano le serate con
la chitarra acustica sul divano, un quaderno ed una penna sempre a disposizione
sopra il comodino e un whiskey da sorseggiare. Molti vivono il rock con questo
approccio, la differenza sta nel risultato. E in questo caso, quando le canzoni
passano dal soggiorno alla studio di registrazione, con l’aggiunta dei The
Grange, il risultato resta confidenziale. Quello di Stalcup è dunque un disco
di rock americano che fa della narrazione il suo punto di forza; prendiamo ad
esempio un brano come “Pete and Clyde”, un flusso della coscienza su un giro
armonico che abbiamo ascoltato in tante altre canzoni, e poi un lungo monologo
parlato, a lasciare la backing back da sottofondo ipnotico. Eppure il fascino
c’è, come nella iniziale “Ogeechee River”, il cui incedere acustico convince
anche e soprattutto per il lavoro strumentale. Se infatti Stalcup non può
vantare un’ugola degna di nota (che comunque basta per quanto ci vuole
comunicare), i The Grange sono una bella band di supporto, quando tutti siamo
consapevoli che fare rock per ricamare è molto più complesso e difficile che
farlo per rumoreggiare. Purtroppo si percepisce una certa stanchezza nella
costruzione e nel cantato, e due pezzi consecutivi come “Downhearted Fools” e
“Get you off my mind”, se non viene posta la giusta attenzione, sembrano
un’unica canzone. Si sentirebbe l’esigenza, è vero, di un cambio di tono, un
ritornello che porti un po’ di sole e spudorata leggerezza, ma probabilmente è
tutto voluto. Se poi la copertina (bellissima) riecheggia in maniera spudorata
i quadri di Hopper, ecco che il conto torna: l’America della solitudine, delle
strade desolate, dei racconti di Cheever e della crudezza di Cormac McCarthy.
In definitiva, Downhearted Fools non
va preso nella sua accezione più rock, perché può deludere l’ascoltatore
mancandone i requisiti essenziali del genere. E’ invece un buon disco di
americana, in cui la scrittura supera di gran lunga l’impatto. Per quanto
invece riguarda l’altra professione, mi piace immaginarlo come un falegname,
curvo su un tronco di un albero e con il pensiero rivolto alla prossima storia.
VOTO: 6,5
Melonstone, martedì 01/11/2016