L’uscita
in rapida sequenza di tre Ep confluiti nell’aprile del 2014 in Indie Cindy, quinto album in studio dei
Pixies, fu un evento importante. Per chi ha a cuore le sorti del R’n’R ancora
di più. Si trattò del ritorno ufficiale, dopo 22 anni di silenzio discografico,
di quelli che unanimemente sono
riconosciuti tra i padri storici del Rock alternativo americano. I riflettori
si riaccesero evidenziando però una band invecchiata e priva di smalto e, come
già successo in casi analoghi (vengono in mente i pessimi comebacks dei Jane’s Addiction oppure quelli a varie riprese degli
Smashing Pumpkins), andarono incontro alle feroci stroncature della critica e
soprattutto dei vecchi fan affezionatissimi ai capolavori del periodo d’oro, nello
specifico, ai quattro dischi usciti tra il 1988 e il 1991: Surfer Rosa, Doolittle, Bossanova e Trompe le Monde. Milioni di copie vendute e centinaia di concerti
sempre e solo sold out. Head Carrier,
in uscita questi giorni per via Play It Again Sam, è quindi l’album del
possibile riscatto. Dodici nuove canzoni per far pace con gli inviperiti fan e trovare
un appiglio più solido di Indie Cindy
da cui organizzare le mosse future. La novità più eclatante riguarda la definitiva
fuoriuscita di Kim Deal che lascia il posto a Paz Lenchantin, già touring bassist della
band con all’attivo esperienze con molti protagonisti del nuovo Rock americano
tra cui A Perfect Circle, Zwan, Silver Jews e QOTSA.
L’inizio
del disco lascia abbastanza attoniti e, se la title track è discreta
manovalanza Indie/Rock (di brani del genere Black Francis, o Frank Black dir si
voglia, ne ha scritto a dozzine nei suoi innumerevoli album solistici), il
disastro arriva con Classic Masher e Baal's Back. La prima è un concentrato
di Pop melenso oltre i limiti di guardia, la seconda è pure peggio: Black
aggredisce il microfono terrorizzandoci con due minuti di urla belluine e
insensate. Una follia, in piena regola per una band Trash/Metal di esordienti, impensabile
in un album dei Pixies. Ora, non fate come me, non buttate via il disco per
scartabellare subito tra gli scaffali in cerca di Doolittle maledicendo nel frattempo quel ciccione egocentrico di
Black Francis e la sua nuova e antipatica musa argentina.
Concedete loro
qualche minuto in più (la sigaretta da far fumare al condannato prima della
fucilazione), così da accorgervi che Head
Carrier è meritevole della grazia perché dalla quarta traccia in poi
subentra il miracolo, la vecchia alchimia e ritroverete tutti i Pixies che
avete amato visceralmente. Dalla meravigliosa ballata, storta e spigolosa come
ai bei tempi, Might As Well Be Gone al
Punk veemente di Um Chagga Lagga, le supercontagiose
Oona, Talent e Plaster Of Paris,
l’emozionante amalgama vocale e chitarristico di Bel Esprit e l’inarrivabile Tenement
Song, la perla del disco, da annoverare tra le più belle canzoni che la
band di Boston abbia mai composto. La malinconica All The Saints interviene a chiudere Head Carrier come meglio non si potrebbe. Una sequenza di brani
belli e bellissimi davvero impressionante e del tutto inaspettata che ci fa chiudere
un occhio sull’unica canzone, non all’altezza di questa seconda parte della
scaletta, rappresentata da All I Think
About Now (scritta da Pat Lenchantin in forma di lettera per ringraziare
pubblicamente Kim Deal) e, non perché sia brutta, ma perché cover non
dichiarata di Where Is My Mind?.
Alla
fine sono gli applausi a prevalere sui fischi, Black Francis non è poi così sovrappeso
e Paz Lenchantin è più che credibile nel
ruolo che fu della indimenticabile Kim Deal, Joey Santiago si conferma uno dei
migliori chitarristi della sua generazione e David Lovering non perde un colpo
alle percussioni. I Pixies (quando vogliono) sanno essere ancora una grande
band. Peccato per quella manciata di brani davvero fuori controllo altrimenti
questo disco farebbe pari e patta coi capolavori di un tempo.
VOTO: 7
Porter Stout, venerdì 07/10/2016
1 commento:
Molto interessante. Non ne seguivo più le sorti da un po'. Gli darò un'altra chance
*MaryA*
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