mercoledì 30 novembre 2016

BLUE RODEO – 1000 ARMS (TeleSoul Records, 2016)



Dopo trent’anni di carriera (celebrati lo scorso anno con un album dal vivo, Live At Massey Hall) e venti dischi pubblicati, tra full lenght in studio, live e raccolte, si può affermare che il successo dei canadesi Blue Rodeo abbia assunto definitivamente una connotazione geografica. Se in patria, infatti, hanno venduto milioni di copie e sono una sorta di leggenda vivente, nel resto del globo terracqueo i Blue Rodeo non sono mai riusciti a sfondare a livello commerciale, pur avendo da sempre i favori della stampa specializzata. Non fa eccezione questo nuovo 1000 Arms, entrato dritto come un fuso nella top ten delle classifiche canadesi e praticamente ignorato negli States e nel resto del mondo. Strano davvero, perché la band originaria di Toronto si muove da sempre con mestiere ed eleganza, attraverso quei territori che sono cari a tutti gli appassionati di Americana. Una formula immutata nel tempo, che riesce a contemperare le due anime a capo del progetto fin dai lontani anni ’80: Greg Keelor, cantante e chitarrista con la passione del rock, e Jim Cuddy, anche lui voce e chitarra, ma con una naturale inclinazione verso il pop e il country. Due galli nel pollaio, dunque, che, come succedeva per Olson e Louris ai tempi d’oro dei Jayhawks, sono sempre riusciti a equilibrare diverse pulsioni, producendo un suono che oggi, è proprio il caso di dirlo, è diventato un marchio di fabbrica. 1000 Arms è, in tal senso, l’ennesima conferma di quanto la formula funzioni egregiamente, grazie a una band che, senza inventare nulla e senza cercare scarti sorprendenti, sa ancora rilasciare dischi di gran classe, che viene davvero difficile togliere dal piatto dello stereo. L’iniziale Hard To Remember apre le danze come a voler rimarcare il concetto appena espresso: un country rock dal sapore antico, con le chitarre in bella evidenza e una melodia dolce amara che conquista fin dal primo ascolto. Subito un brano di gran livello a inaugurare una scaletta senza cedimenti, che, anzi, cresce ulteriormente nella seconda parte del disco, in cui le grandi canzoni si sprecano. A cominciare dal notturno tanguero di Dust To Gold, con la pedal steel di Bob Egan e il pianoforte che si intrecciano in una melodia che non lascia scampo. Per contraltare, la successiva Superstar esplode di colori, tra graffi di chitarra e fiati sinuosi, a raccontarci che da queste parti i Beatles si sono ascoltati sempre volentieri. Un singolo bomba, dal ritornello leggero e cangiante, che la dice lunga sulla capacità dei Blue Rodeo di creare canzoni dal piglio radiofonico senza però mai sbracare nell’ovvio. Un livello compositivo di gran qualità, quindi, che viene confermato anche nella caracollante e malinconica Can’t Find My Way Back To You o nel finale di The Flame, ballata elettro-acustica in bilico fra country e rock, che cresce drammatica in un finale, in cui l’hammond s’insinua di prepotenza fra le chitarre e diviene protagonista assoluto. Un signor disco, dunque, l’ennesimo nella carriera dei Blue Rodeo, che a dispetto di una fama che non riesce a decollare oltre i confini del Canada, si confermano fra le band più lucide a ricamare, attraverso i suoni dell’americana, melodie che colgono dirette il centro del bersaglio.

VOTO: 7,5





Blackswan, mercoledì 30/11/2016

martedì 29 novembre 2016

DON WINSLOW - L’ORA DEI GENTILUOMINI

Boone Daniels vive per il surf. I surfisti di San Diego sono la sua vera famiglia. Una comunità che però rischia di andare in pezzi quando uno di loro viene ucciso e Boone accetta di difendere l'unico sospetto. È rabbia vera, quella che l'ex poliziotto si ritrova ad affrontare da parte di coloro che considerava dei fratelli. In più, via via che la sua indagine lo costringe a immergersi nelle torbide acque della società di San Diego, inquinate da avidità e corruzione, Boone capisce che in ballo non c'è soltanto un caso di omicidio. E che, per la prima volta, sarà davvero da solo ad affrontare le onde, onde sempre più forti, pronte a spazzare via tutto ciò che conosce e ama, e la sua stessa vita.
 

Il livello di aspettativa che induce l’uscita di un nuovo libro di Don Winslow è sempre altissimo. Soprattutto, poi, se il penultimo romanzo pubblicato dallo scrittore newyorkese, stiamo parlando de Il Cartello, è stato riconosciuto unanimemente dalla critica come un capolavoro assoluto di genere. Così, a prendere in mano L’ora dei Gentiluomini, secondo capitolo della saga dedicata al detective surfista, Dave Boone, risalente al 2009, ma pubblicato solo oggi in Italia, è lecito attendersi un’altra bomba. Invece, proprio l’inevitabile confronto con il precedente romanzo, induce a raffreddare un po’ il giudizio finale. Intendiamoci: siamo di fronte a una lettura piacevolissima, l’ennesima con cui Winslow ci tiene incollati alle pagine grazie al brillante intreccio narrativo e a quella prosa “cinematografica” che ormai siamo abituati a riconoscere all’istante. Tuttavia, l’impressione è quella di un lavoro meno curato, e sviluppato con una certa fretta, senza,cioè, quegli approfondimenti e quelle digressioni che hanno reso leggendari libri come Il Potere Del Cane o il già citato Il Cartello. Le due vicende che scorrono parallele, infatti, sembrano essere frutto del rabbercio di due idee distinte, più che il frutto di un unico ragionamento, e la scrittura, di solito minimale ma eccitante, ha qualche caduta di tono, soprattutto nei dialoghi fra Boone e la sua aspirante fidanzata. Nulla che impedisca di arrivare alla fine con discreta soddisfazione, ma di sicuro L’Ora Dei Gentiluomini è destinato ad entrare nel novero delle opere minori di Winslow, al pari di Morte e Vita Di Bobby Z o La Lingua Del Fuoco.
 
 
Blackswan, martedì 29/11/2016

 

 

lunedì 28 novembre 2016

IL MEGLIO DEL PEGGIO





Riceviamo dalla nostra freelance Cleopatra e integralmente pubblichiamo

Non sono tra coloro che "voto sì, perchè l'Italia deve cambiare", come se il cambiamento, di per sè, debba avere un'accezione necessariamente positiva. Tanto per non girarci attorno, faccio parte dell'accozzaglia, quelli del NO, il fronte a cui aderisce pure Renato Brunetta, col quale non avrei mai pensato prima d'ora di avere qualcosa in comune. Ma tant'è.
Brunetta a parte, a coloro che propendono per il SI anche per smarcarsi dalle opinioni di certi politici "sgraditi", rammento sommessamente che a sostenere la riforma Renzi - Boschi, saranno illustri personaggi del calibro di Denis Verdini. E non so se mi spiego. A seguire, gli Alfano, i De Luca, i Marchionne, Confindustria, la Troika, le banche d'affari, le multinazionali, la finanza e tutto il cucuzzaro che sostiene le scellerate politiche neoliberiste, responsabili della macelleria sociale a cui stiamo assistendo.
Che la riforma costituzionale sia la panacea di tutti i mali italiani, non mi convince affatto. La verità è che per Matteo Renzi, citando la celebre frase di Tancredi ne "Il Gattopardo", bisogna che tutto cambi se si vuole che tutto rimanga com' è. 
Dunque, Palazzo Madama diventerà Senato delle Autonomie e, di fatto, non viene abolito. Le Province diventano Città metropolitane e il Cnel sopravviverà sotto mentite spoglie, magari cambiando denominazione, come il caso di Equitalia, da cui è nata l'Agenzia delle Entrate. 
E' il vecchio gioco delle tre carte, insomma. Con la conseguenza che la sovranità popolare sarà fortemente limitata: non si voterà più per il Senato. Il Parlamento sarà composto per due terzi da nominati e le Regioni saranno depotenziate. I nominati popoleranno pure le Province. E all'apice del sistema troneggerà un Premier con un amplissimo raggio d'azione. La storia è fatta di corsi e di ricorsi: tra vent'anni potremmo trovarci una Marine Le Pen o un Viktor Orban. E allora sarebbero guai.

Cleopatra, lunedì 28/11/2016

domenica 27 novembre 2016

SUNDAY MORNING MUSIC





Opal – Happy Nightmare Baby
Happy Nightmare Baby è l’unico 33 giri inciso dai californiani Opal, ovvero Kendra Smith, già cantante e bassista nel nucleo fondativo dei Dream Syndicate, e David Roback chitarrista dei Rain Parade. Il disco uscì nel 1987 diventando presto uno dei tesori più preziosi di tutto il periodo Paisley Underground. Canzoni all’apparenza fragili che, grazie allo straordinario potere seduttivo, s’incuneano sottopelle con gentilezza e  senza clamori. La band si sciolse subito dopo e i due intrapresero in seguito carriere solistiche di ottimo livello. Roback collaborò con Hope Sandoval fino alla nascita dei Mazzy Star, la band che seppe raccogliere, meglio di chiunque altra, l’eredità artistica dei magici Opal. 



Girls Against Boys – Billy's One Stop

I Girls Against Boys sono probabilmente la band più sottovalutata di tutto il Post-Hardcore americano, sette album all’attivo, almeno un paio i capolavori: Venus Luxure No. 1 Baby del 1993 e House Of GVsB del 1996. Sfiorarono più volte il successo, la loro Kill The Sex Player finì nella colonna sonora di Clerks e qualche anno dopo la Geffen li mise sotto contratto per Freak*on*ica, senza tuttavia riuscire ad intercettare un pubblico più ampio di quello dei circuiti indipendenti. Il culto per i GVsB è comunque ancora vitalissimo come il loro Rock chitarristico teso ed empatico in egual misura. Una grande band che non faticherà ad entrare nel novero delle preferite per tutti coloro che hanno amato visceralmente i Fall quanto i Fugazi.   

 

 

Primitives – Crash
In questo caso Mal non c’entra, loro sono i Primitives di Coventry: una cantante australiana dal curioso nomignolo “Tracy Tracy” e una manciata di album incisi tra l’88 e il 91 capaci di conquistare critica e classifiche di vendita con un cocktail di Sixties/Pop e Noise/Punk a presa immediata. Pezzi come Crash, Carry Me Home, Sick Of It, Way Behind Me, aprivano spesso le cassettine che si sarebbero inevitabilmente rovinate, per il troppo uso, dentro le autoradio. Nel 2013 sono tornati con Echoes and Rhymes, la formula non è cambiata come anche il divertimento che si prova ad ascoltarli. 






Porter Stout, domenica 27/11/2016