Dopo trent’anni di carriera
(celebrati lo scorso anno con un album dal vivo, Live At Massey Hall) e venti
dischi pubblicati, tra full lenght in studio, live e raccolte, si può affermare
che il successo dei canadesi Blue Rodeo abbia assunto definitivamente una
connotazione geografica. Se in patria, infatti, hanno venduto milioni di copie
e sono una sorta di leggenda vivente, nel resto del globo terracqueo i Blue
Rodeo non sono mai riusciti a sfondare a livello commerciale, pur avendo da
sempre i favori della stampa specializzata. Non fa eccezione questo nuovo 1000
Arms, entrato dritto come un fuso nella top ten delle classifiche canadesi e
praticamente ignorato negli States e nel resto del mondo. Strano davvero, perché
la band originaria di Toronto si muove da sempre con mestiere ed eleganza,
attraverso quei territori che sono cari a tutti gli appassionati di Americana.
Una formula immutata nel tempo, che riesce a contemperare le due anime a capo
del progetto fin dai lontani anni ’80: Greg Keelor, cantante e chitarrista con
la passione del rock, e Jim Cuddy, anche lui voce e chitarra, ma con una
naturale inclinazione verso il pop e il country. Due galli nel pollaio, dunque,
che, come succedeva per Olson e Louris ai tempi d’oro dei Jayhawks, sono sempre
riusciti a equilibrare diverse pulsioni, producendo un suono che oggi, è
proprio il caso di dirlo, è diventato un marchio di fabbrica. 1000 Arms è, in
tal senso, l’ennesima conferma di quanto la formula funzioni egregiamente,
grazie a una band che, senza inventare nulla e senza cercare scarti sorprendenti,
sa ancora rilasciare dischi di gran classe, che viene davvero difficile
togliere dal piatto dello stereo. L’iniziale Hard To Remember apre le danze
come a voler rimarcare il concetto appena espresso: un country rock dal sapore
antico, con le chitarre in bella evidenza e una melodia dolce amara che
conquista fin dal primo ascolto. Subito un brano di gran livello a inaugurare
una scaletta senza cedimenti, che, anzi, cresce ulteriormente nella seconda
parte del disco, in cui le grandi canzoni si sprecano. A cominciare dal
notturno tanguero di Dust To Gold, con la pedal steel di Bob Egan e il
pianoforte che si intrecciano in una melodia che non lascia scampo. Per
contraltare, la successiva Superstar esplode di colori, tra graffi di chitarra
e fiati sinuosi, a raccontarci che da queste parti i Beatles si sono ascoltati
sempre volentieri. Un singolo bomba, dal ritornello leggero e cangiante, che la
dice lunga sulla capacità dei Blue Rodeo di creare canzoni dal piglio
radiofonico senza però mai sbracare nell’ovvio. Un livello compositivo di gran
qualità, quindi, che viene confermato anche nella caracollante e malinconica
Can’t Find My Way Back To You o nel finale di The Flame, ballata elettro-acustica
in bilico fra country e rock, che cresce drammatica in un finale, in cui l’hammond
s’insinua di prepotenza fra le chitarre e diviene protagonista assoluto. Un
signor disco, dunque, l’ennesimo nella carriera dei Blue Rodeo, che a dispetto
di una fama che non riesce a decollare oltre i confini del Canada, si
confermano fra le band più lucide a ricamare, attraverso i suoni dell’americana,
melodie che colgono dirette il centro del bersaglio.
VOTO: 7,5
Blackswan, mercoledì 30/11/2016
Nessun commento:
Posta un commento