Il
luogo di provenienza dei Syd Arthur – Canterbury - è tanto ingombrante quanto (almeno
sulla carta) garanzia di qualità e originalità. Prodotto da Jason Falkner,
collaboratore, fra gli altri, di Beck, Air e Travis, “Apricity” (termine anglosassone da tempo in disuso che sta a
significare il “calore del sole”) è già dal titolo opera che sa essere singolare
e al contempo classicamente canterburiana senza ostacolanti limiti derivativi.
Eppure i Syd Arthur (nome che omaggia due campioni della psichedelia, i
compianti Syd Barrett e Arthur Lee), pur facendo riferimento, almeno
geograficamente, a grandi gruppi di genere, come Caravan e Camel, ripropongono
quelle leggendarie sonorità seventies con piglio moderno, inclinazione pop e
variazioni psych rock. Il risultato della commistione, è un accattivante rock
progressive spogliato dai paludamenti del tempo e dalle grisaglie intellettuali
del genere, in cui l’accento pop, declinato ovviamente con pronuncia british,
rende agile la materia, rendendola fruibile anche a un pubblico non abituato
alla complessità del genere. Abbandonati progressivamente alcuni ammiccamenti
jazzy che facevano capolino nel precedente Sound Mirror e circoscritte allo
stretto necessario le aperture psichedeliche, i Syd Arthur hanno
definitivamente cristallizzato il loro suono, avviandosi verso una rilettura
mainstream del prog rock, che favorisce la sintesi melodica a discapito di
lunghe digressioni strumentali. Niente suite, come da miglior tradizione anni
‘70, o brani dal consistente minutaggio, ma canzoni, invece, che si attestano
sulla durata massima di quattro minuti, e che, pur utilizzando un linguaggio
elegante e strutturato, suonano dirette e immediatamente riconoscibili grazie a
irresistibili ganci melodici. Un progressive 2.0, snello ma non annacquato,
sostenuto, talvolta, da ritmiche sincopate (il tempo in levare dell’iniziale
Coal Mine), curato nelle sfumature e abile nel mantenere le distanze da intenti
manieristici e da sterili copia incolla.
Josh
Magill, il nuovo batterista che ha sostituito Fred Rother, pare aver portato un
tocco di freschezza pop alla comunque complessa architettura sonora, in
particolare nell’iniziale e già citata Coal
Mine e nella successiva Plane Crash
In Kansas, due delle tracce più immediate e per certi versi fuorvianti
rispetto al tono generale dell’album. Rimarchevole il lavoro di Raven Bush (per
inciso: nipotino di Kate – sì, proprio lei) agli archi e alle tastiere: la
strumentale Portal è farina quasi esclusiva
del suo sacco, e quello che forse è il brano migliore del lotto, Into Eternity, dimostra che nella
famiglia Bush il talento è parte integrante del DNA.
L’apparente
immediatezza del disco è però ingannevole. Apricity
necessita infatti di svariati ascolti per essere apprezzato nelle sue spesso
preziose sfumature, e se nei suoi momenti più deboli (Seraphim e il singolo Sun
Rays) può risultare tedioso, nondimeno nel complesso suona ben fatto e
inocula nell’ascoltatore il siero della speranza in una rinascita di un certo
pop colto. In definitiva, i Syd Arthur riescono nell’intento non facile di
gettare un ponte fra due stagioni musicali, all’apparenza distanti, ma qui
accostate in modo seducente. Nonostante qualche incertezza nella scrittura, che
ci tiene lontano dal massimo dei voti, non possiamo però astenerci dal
sottolineare lo sforzo creativo di una band che, pur tenendo un piede in un
lontano passato, è capace di guardare al futuro con disinvolta efficacia.
VOTO: 7
Massimiliano Manocchia e Blackswan, martedì 08/11/2016
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