E’ davvero
inconcepibile come un talento quale quello espresso da Beth Hart, songwriter e
cantante losangelina, classe 1972, abbia faticato a imporsi sulla scena
mainstream. Non dico in Italia, dove la Hart solo da poco ha raggiunto i
vertici di notorietà che si merita, ma anche negli Stati Uniti, dove l’abbrivio
per il successo commerciale (a parte l’estemporanea notorietà raggiunta nel
1999 con LA Song, singolo di successo tratto dalla colonna sonora di Beverly
Hills 90210) è arrivato a seguito della recente collaborazione con Joe
Bonamassa. La Hart, insomma, ha lottato coi denti e con le unghie per emergere
dal sottobosco di quegli artisti dalle doti indubbie ma che le circostanze
hanno sempre relegato a ruoli marginali o comunque inferiori alle aspettative.
Un percorso altalenante il suo, iniziato nel 1996 con un disco folgorante
(Immortal), non bissato però dai successivi capitoli, tutti troppo deboli a
livello compositivo per sfondare nei giri che contano, e continuato poi due
album assai convincenti rilasciati in condominio con il citato chitarrista
originario di Utica (Don’t Explain del 2011 e Seesaw del 2013), che le hanno
finalmente dato visibilità e una certa libertà di esprimersi al meglio, senza
dover necessariamente fare i conti con un lunario da sbarcare. Se in Bang Bang
Boom Boom (2012) la Hart cercava di battere il ferro finché caldo, con
composizioni discrete ma virate a un suono radio frendly, con Better Than Home
(2015) si è avvertito finalmente il cambio di rotta tanto auspicato, grazie a
un songwriting ben definito e a uno stile reso unico da quella voce
straordinaria, che Beth è riuscita a dominare e plasmare nel corso degli anni.
Se mi si consente il termine un po’ abusato, e anche un filo azzardato per
un’artista in pista da ormai vent’anni, questo nuovo Fire On The Flood suona un
po’ come il disco della definitiva maturità artistica ed è, fuor di dubbio, il
miglior full lenght in studio pubblicato fin dai tempi del leggendario
Immortal. Addomesticata la voce, sgravandola da quel timbro da urlatrice che
era da sempre un limite tecnico a un’ugola diversamente assai versatile, la
songwriter losangelina appronta una scaletta di canzoni che, come da miglior
tradizione della casa, sfoderano un approccio sanguigno e appassionato al mondo
del rock blues e del soul. Generi, questi, che, a parte qualche estemporaneo
episodio, fanno la parte del leone per tutta la durata del disco.
Se da un
lato, quindi, troviamo il delizioso pop soul di Let’s Get Together, brano che
non avrebbe sfigurato in un disco degli Style Council (sic!), o Fat Man, unico
momento che testimonia di come all’occorrenza la Hart sappia anche mostrare i
muscoli del rock più graffiante, il resto dell’album si configura come una
sorta di vademecum blues e soul, i cui brani, raccontano, con sicurezza e un
tocco di originalità, un’artista cresciuta moltissimo a livello compositivo.
L’apertura di Jazz Man, come palesato dal titolo, declina il verbo blues con
accenti jazzati e qui, la Hart apre le danze con grande padronanza della voce e
con il piglio di chi ha le idee chiarissime. Un colpo da fuoriclasse che ben
predispone all’ascolto dell’album. Il brano successivo, Love Gangster, è uno
dei pezzi migliori mai scritti dalla cantante losangelina, che riesce a far
confluire fra le classiche dodici battute una ritmica caraibica e un ritornello
di struggente intensità. Una canzone pressoché perfetta, che ci ruba svariati
ascolti senza mai stufare. Il blues è anche protagonista di Coca Cola,
ballatona seducente in cui la Hart fa le fusa come una gatta in calore, e Love
Is Lie, in cui i toni si fanno più melodrammatici e il cantato grintosissimo.
Se la title track, pur nella sua solidità, è fin troppo convenzionale (ma la
voce di Beth porta, comunque, a casa il risultato) e Woman You’ve Been Dreaming
Of soffre di un eccesso di zuccheri, nel finale la Hart infila, però, tre perle
assolute: il soul di Good Day To Cry, il cui ritornello è il fratellino minore
di Stay With Me di Lorraine Allison, e due ballate pianistiche da brividi,
Picture In A Frame e No Place Like Home, che mettono a nudo un talento vocale
smisurato e una scrittura che sa muoversi con sensibilità fra le pieghe più
intime dell’anima. Con Fire On The Flood, dunque, Beth Hart non solo si
conferma una delle voci più appassionate del panorama rock blues in quota rosa
(e questo già lo sapevamo), ma dimostra anche di poter fare cose egregie
lontana dal fortunato pigmalione artistico con Bonamassa. Una sorta di
definitiva rinascita, dunque, che reindirizza verso picchi di qualità una
carriera non sempre all’altezza dell’indubbio talento della sanguigna Beth.
VOTO: 7,5
Blackswan, mercoledì 09/11/2016
1 commento:
lo sto scoltando heavy rotation....bellissimo, e sono d'accordo, il migliore da Immortal...!
per me e' la migliore, punto e basta. Una voce che ti entra nell'anima
Beth, simply the best....
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