Ci sono alcuni
ingredienti, in cucina, che all’apparenza sembrano inconciliabili, ma che poi
nelle mani di un cuoco abile, capace di azzardi e dotato di tecnica, se
abbinati con sapienza, possono dare vita a manicaretti sopraffini. Nello stesso
modo, è difficile pensare a un disco che celebri l’incontro fra due strumenti
che possono convivere in una più ampia partitura, ma che solo una mente
visionaria può concepire in un dialogo serrato ed esclusivo della durata di
un’ora. Ora, chi di voi prima d’oggi ha mai ascoltato un disco in cui unici
protagonisti sono un pianoforte e un mandolino, alzi la mano. Nessuno, vero? Chris
Thile e Brad Mehldau, invece, lo hanno realizzato, superando in modo brillante
quella che sembrava un’operazione, se non inconcepibile, quanto meno rischiosa.
D’altra parte, però, chi è un po’ addentro alle cose della musica sa benissimo
di che caratura siano gli artisti appena citati. Chris Thile (ex- Nickel Creek
e leader indiscusso dei Punch Brothers) è un virtuoso del mandolino che, oltre
ad aver innovato la tradizione bluegrass, vanta anche importanti collaborazioni
in ambito jazz e classico (ha suonato con Yo-Yo Ma, tanto per capire il
livello). Brad Mehldau, invece, è considerato unanimemente uno dei maggiori
interpreti del pianoforte moderno e ha all’attivo, nonostante la giovane età (è
del 1970), un’imponente discografia nella quale si è spesso divertito a
reinterpretare in chiave jazz canzoni pop rock contemporanee (si pensi a
Anything Goes del 2002 o a Day Is Done del 2005). I due si conoscono e si
stimano da tempo, da quando, nel 2011, hanno cominciato quasi per gioco a
proporre dal vivo alcuni dei brani che poi sono confluiti in questo disco
d’esordio. Inutile soffermarci sull’ovvio, e cioè sulla tecnica mostruosa dei
due musicisti, i cui virtuosismi, e non potrebbe essere altrimenti, abbondano
per tutta l’ora e passa di ascolto. Ma non è questo il punto, o almeno non è la
cosa più interessante. L’aspetto davvero esaltante della vicenda è semmai la
capacità di Thile e di Mehldau di trovare il punto di fusione fra le rispettive
esperienze musicali, riuscendo a creare un innovativo e intenso melange sonoro,
nel quale confluiscono jazz, blues, classica, pop e roots americano. In
scaletta ci sono alcuni brani originali, scritti per l’occasione, e alcune
cover rilette con gusto dai due musicisti: il tocco introspettivo di Mehldau,
la sua capacità armonica, gli accenti di derivazione classica e l’approccio
popolare richiamano alla mente un grandissimo come Bill Evans; dal canto suo,
Chris Thile, è abile a utilizzare il mandolino anche in chiave ritmica (questo
è l’aspetto concettualmente più innovativo) e a usare il suo falsetto sghembo
in modo tanto inusuale quanto fascinoso. Nonostante l’apparente osticità della
proposta, il disco scorre fluido e carico di suggestioni, regalandoci alcune
vette compositive, come l’introduttiva strumentale The Old Shade Tree, in cui i
due dimostrano subito di che pasta sono fatti, o la successiva Tallahassee
Junction (a firma Mehldau), un labirinto di scale (e di assoli), che nemmeno la
biblioteca de Il Nome della Rosa. Molto bene anche le cover, tra cui
un’ispiratissima Indipendence Day di Elliott Smith (bella da groppo in gola) e
l’immancabile Dylan della sublime Don’t Think Twice It’s Allright, giocata
tutta su cambi ritmo e improvvisazione. Nel suo calcolato azzardo, Chris Thile
& Brad Mehldau coglie, dunque, in modo sublime la sintesi perfetta fra
musica colta e popolare, ponendosi come uno dei dischi più spiazzanti,
innovativi e originali del 2017. Un gioiello a cui è davvero impossibile
rinunciare.
VOTO: 9
Blackswan, martedì 07/02/2017
Nessun commento:
Posta un commento