Il Rock inglese nella metà degli anni ‘80 si contraddistingue
per una massiccia opera di rinnovamento tesa al superamento della lunghissima
stagione del Punk e della New Wave. L’implosione dei Clash, con il pessimo atto
finale Cut The Crap, ha un suo
immediato contraltare qualitativo con l’affermazione degli Smiths, di Lloyd
Cole and The Commotions e degli Housemartins a cui si aggiungono le frizzanti sonorità
Folk/Rock dei cugini irlandesi Pogues e Waterboys. Tra le vecchie glorie
tengono botta gli XTC, i Cure, Costello e i Fall, intanto gli U2 fanno le prove
generali per assumere di lì a breve il ruolo di band più popolare del
terraqueo. E’ in questo contesto che arriva la rivoluzione del cosiddetto Shoegaze
che vedrà tra i suoi esponenti più popolari, nonché massimi ispiratori, la band
scozzese Jesus and Mary Chain.
Tutto nasce in un sobborgo di Glasgow sotto l’impulso
di due giovanissimi chitarristi, i fratelli Jim e William Reid e dell’amico
d’infanzia Douglas Hart al basso. Dopo l’incisione di una demo che contiene la
registrazione domestica di Upside Down
raggiunge la band anche un nuovo batterista, quel Bobby Gillespie che in
seguito diventerà una gloria d’Inghilterra con i suoi Primal Scream. Grazie a
quest’ultimo conoscono Alan McGee della Creation che intravedendo il grande
potenziale dei quattro finanzia il singolo d’esordio: una versione riveduta e
corretta di Upside Down sul lato A e
sul retro la cover Vegetable Man di
Syd Barrett. Il disco sortisce i suoi effetti, le migliaia di copie vendute in
poche settimane scatenano una vera e propria asta tra le maggiori etichette
discografiche per mettere sotto contratto i Jesus. Sarà il potente manager
della Rough Trade Geoff Travis, che gestisce anche la Blanco Y Negro per conto
della WEA, ad assicurarsi le future performance della band. Arrivano quindi
altri singoli memorabili Never Understand,
You Trip Me Up e la hit Just Like Honey, che accrescono febbrilmente
l’interesse per il quartetto scozzese in vista dell’uscita di Psychocandy, il debutto a 33 giri che segnerà
indelebilmente le vicende del Rock nel decennio successivo influenzando decine
di nuove band con il suo portato di originalità e forza impattiva. Velvet
Underground, Suicide, Ramones, Stooges, gli esperimenti Noise dei Sonic Youth ma
anche il Garage e il Pop dei sixties, tutto dentro ad un frullatore impazzito
che i J&MC alimentano con l’elettricità sporca ed abrasiva delle chitarre
di Jim e William e l’annoiata sussistenza di una sezione ritmica tra le più
basiche e strascicate di sempre.
Coltri di feedback proteggono la natura
delicata delle loro canzoni essenzialmente Pop, un’aggressione sonica atta ad
erigere un moderno “muro del suono” dietro al quale nascondere anche timidezze
ed insicurezze mai completamente risolte. Per tutta la carriera preferiranno
infatti il lavoro in studio alla dimensione live dove, il reiterato sforzo di
scomparire sotto le foltissime capigliature, finirà per connotare l’estetica di
tutto il movimento Shoegaze. Fissare le Dr. Martens quindi, anziché aizzare le
folle sotto al palco, più per un malcelato senso d’inadeguatezza che non per una
predefinita opzione scenografica. Così My Bloody Valentine, Spacemen 3, Loop (sul
versante inglese), Pixies, Dinosaur Jr, Galaxie 500 (oltreoceano), le band che
meglio sapranno introiettare la lezione di Psychocandy.
Tra alti e bassi e leggendarie risse tra fratelli i
Jesus and Mary Chain produrranno dall’87 al 98 altri cinque album, tutti di
grande successo mediatico e di pubblico, fino all’auto consunzione e allo
scioglimento intervenuto dopo l’uscita di Munki
con Jim e William incapaci di rapportarsi l’un con l’altro. Da allora soltanto
rumors di fantomatiche riappacificazioni e qualche sporadico progetto
collaterale, vedi i Lazycame di William, i Freeheat di Jim con alcuni membri
dei Gun Club e i Sister Vanilla (ancora Jim con la sorella Linda). Dopo
l’estemporaneo ritorno nel 2007 per la partecipazione al Coachella Festival
insieme a Scarlett Johansson (Just Like
Honey, Lost in Translation,
conoscete la storia) che non porterà a nessuna nuova registrazione, la svolta nel
2015 con la realizzazione del doppio album Barrowlands
Live che ripercorre le fasi salienti della loro carriera e ora l’agognatissimo
settimo album: Damage and Joy. Prodotto
da Youth (l’ex Killing Joke Martin Glover) il disco assembla 14 pezzi tra
inediti e cose già sentite (Amputation
proviene dal repertorio dei Freeheat, Can't
Stop The Rock da quello dei Sister Vanilla) e si avvale delle ospitate,
tutte al femminile, di Isobel Campbell, Bernardette Denning, Sky Ferreira e
Linda Reid accreditata “Fox”. Il disco suona benissimo in brani come All Thing Pass e Always Sad che non avrebbero sfigurato in Darklands, la ritmata Facing
Up To The Facts e l’emozionante interplay vocale di Black and Blues con la Ferreira sugli scudi. Non allo stesso modo
quando ci si imbatte nella debolissima ballad narcolettica War On Peace, oppure nel Brit Pop mellifluo di Mood River e Presidici (Et
Chapaquiditch), poco più che dei riempitivi senza i quali si sarebbe potuto
parlare di un piccolo miracolo da aggiungere ai lavori più accessibili dei
J&MC. Damage and Joy si erge
comunque sulle sciatterie dell’Indie attuale e potrebbe, per chi troppo giovane
o non ancora nato all’epoca, suscitare la giusta curiosità per recuperare i
lavori più belli di una delle band fondamentali degli anni ‘80.
VOTO: 7
Porter Stout, venerdì 31/03/2017