Messi in naftalina i suoi
Hold Steady, il cui ultimo full lenght risale al 2014, Craig Finn sembra aver
dato un’accelerata alla propria carriera solistica, sfornando il suo terzo
album, che è anche il secondo negli ultimi due anni. Stiano tranquilli i fans
della band originaria di Brooklyn: in attesa che gli Steady tornino in sala di
registrazione, possono tranquillamente consolarsi con We All Want The Same Things,
seguito superlativo del già ottimo Faith In The Future (2015). Finn dimostra per
l’ennesima volta di sapersi muovere con abilità anche fuori dalle pareti della
casa madre, sfoggiando un songwriting, il cui tratto obliquo e mai prevedibile,
cesella dieci canzoni di rock urbano, classico nelle fondamenta, ma capace di
intuizioni che lo portano lontano dalla consueta narrazione. E’ un disco
umorale, We All Want The Same Things, in bilico fra le malinconie metropolitane
rese meravigliosamente dalla foto di copertina, ma anche attraversato da un’energia
rock che trasfigura, mitigandolo, il contenuto di liriche incentrate su
relazioni affettive fondate sull’opportunismo, destinate al fallimento o
incapaci di colmare il male di vivere. L’iniziale Jester & June è un
gioiello compositivo di imprevedibilità, una canzone che trova la sua forza
emotiva nei continui cambi di registro: un sax moribondo ad aprire le danze, la
voce di Finn che sputa le parole, una a una, accordi di chitarra in minore, un
drumming in mid tempo sgranato e un assolo folgorante effettato wah-wah. Una
canzone che di primo acchito lascia interdetti, e che poi cresce, ascolto dopo
ascolto, conquistandoci con i suoi sottintesi melodici e l’originalità dell’arrangiamento.
La successiva Preludes aggancia l’ascoltatore con una tastierina lo-fi su cui
si sviluppa una melodia semplice, ma irresistibile. Il beat di Ninety Bucks
gira dalle parti di Willie Nile e colpisce nel segno con un icastico ritornello
(Nathan, you’re my only friend) che
suggella una storia d’amicizia. Il cuore del disco, God In Chicago, interrompe
il filo del discorso, costruendo, attraverso poche note di pianoforte, un
piccolo romanzo in musica, in cui lo spoken word di Finn ricorda la propria
adolescenza vissuta a St. Paul (Minnesota), città dove il nostro è cresciuto. La
liquida tristezza di Be Honest, ballata in chiave springsteeniana, chiude un
disco non immediato, curato negli arrangiamenti, figlio di una ricerca melodica
che si sviluppa lontano dall’ovvio, il cui valore aggiunto sono le liriche di
Finn, sensibile storyteller di amori e amicizie, di nostalgici ricordi e
crudele realtà, di uomini e donne che lottano, che perdono e si perdono. Cuffie
sulle orecchie, booklet alla mano, un po' di pazienza e We All Want The Same
Things saprà conquistarvi definitivamente. Perché in fin dei conti, tutti
vogliamo le stesse cose: buona musica e parole sincere che tocchino il cuore.
VOTO: 7,5
Blackswan, giovedì 25/05/2017
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