L’ultimo capitolo della
discografia dei The Delta Saints è figlio di un lungo percorso artistico, che
ha visto la band originaria di Nashville sgomitare in una lunga gavetta fatta
di migliaia di concerti e dischi autoprodotti. Poi, nel 2013, arriva Death Letter
Jubilee, disco pubblicato grazie al crowdfunding (quella pratica di micro
finanziamento dal basso, che oggi va tanto di moda e che spesso dà risultati
sorprendenti), e primo successo in termini commerciali. Un disco rumoroso, sporco, connotato da riffoni hard
a volte rallentati dal passo lento del blues, in altri casi accelerati
dall’urgenza del rock’n’roll. Forti dei buoni risultati di vendite e dell’attenzione
da parte della stampa specializzata, i Delta Saints iniziarono a plasmare il
proprio suono, spogliandolo dei preponderanti accenti roots, per arricchirlo
con un
songwriting personale e ricco di idee. Bones (2015), questo l’album della
definitiva svolta, pur avendo come base di partenza un rock blues declinato con
accenti sudisti, che guardava alla tradizione di caposcuola come i Black Crowes
e suggeva linfa vitale da riff classici di derivazione zeppeliniana, finiva per
suonare “diverso” grazie a contaminazioni funky, garage e acid e a un pizzico
di pop che rendeva irresistibili melodie di facile presa. Monte vista è il
perfezionamento di quel suono, un ulteriore passo verso una nuova maturità
creativa, che non rinnega completamente il passato né la sporca essenza
southern dei loro esordi, ma che, grazie a una produzione curatissima (Eddie
Spear, già con Jack White e Arctic Monkeys) compie una perfetta fusione fra
alternative e mainstream. In tal senso l’opener California è un up-beat
antemico: riff dal retrogusto blues, melodia impeccabile, perfetta radio song.
Il fango del Mississippi si può trovare ancora nella slide e negli umori cupi
di Are You?, mentre Sun God fonde echi seventies con un tiro che ricorda le
cose migliori dei King Of Leon, e la ballata conclusiva Two Days chiama in
causa addirittura i Soundgarden riletti con un tocco di psichedelia. Monte
Vista è complessivamente un disco che, però, cambia le carte in tavola e che
probabilmente non piacerà a tanti fan della prima ora, abituati a un suono più
sporco e a un approccio più diretto e bluesy. D’altronde, non si può non
evidenziare che alcuni passaggi dell’album sono così marcatamente ruffiani da
far venire in mente addirittura i Coldplay (Space Man, Young and Crazy). Eppure,
il disco suona coeso e piacevole, le idee non mancano e la band appare in
grande spolvero. Meno bayou e più pop, insomma: un compromesso non esaltante
per gli amanti del rock più verace ma, senza dubbio, una svolta in grado di
creare nuovi (e più giovani) adepti alla causa.
VOTO: 6,5
Blackswan, mercoledì 17/05/2017
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