In tempi di riconversione Elettro/Pop ritenuta
necessaria dai più, tiene botta il trentenne gallese H. Hawkline, al secolo Huf
Evans, privo com’è di assilli commerciali e poco incline ad assoggettarsi ai
cliché dominanti. Lo fa seguendo il flusso della propria ispirazione, trafficando
con una voce riconoscibilissima quanto straniante, organizzando giochi
chitarristici che dal Folk si spingono fino all’Art/Rock, offrendoci così un
altro giro del suo blend sonoro con cui ci aveva già sedotto con l’album della
consacrazione, The Pink Of Condiction
(Heavenly, 2015), quasi un secondo esordio dopo una manciata di lavori
scarsamente distribuiti usciti tra il 2010 e il 2013. Hawkline, divenuto nel
frattempo oggetto di un ampio culto, paragonato spesso al Beck di inizio
carriera oppure ai conterranei Gorky’s Zygotic Mynci per l’innata capacità di rimescolare
i linguaggi musicali della tradizione alterandone i codici, prosegue dunque
anche in questo nuovo lavoro a plasmare forme espressive al tempo stesso
ricercate e primarie in grado di dar agio ad ambientazioni che cambiano con
l’avvicendarsi dei brani in scaletta: sinuose e rarefatte quando si rifà ai
cantautori degli anni ’60 e ’70, pregnanti e stridenti quando invece guarda ai protagonisti
della New Wave intellettuale di fine ‘70.
Ora, pur restando fedele alla sua immagine di
cantastorie demodé, Hawkline con I
Romanticize introduce alcune novità stilistiche: il funkettino accattivante
nei brani più ipnotici e movimentati,
Engineers, Television, Salt Cleans (immediato il rimando a More Songs About Buildings And Food dei
Talking Heads oppure agli album dei portabandiera del minimalismo Post/Punk, i
Polyrock), gli umori barrettiani della ballata notturna Last Days in the Factory, l’elettronica a misura d’uomo negli
episodi che chiudono il disco, Cold Cuts,
canzoncina contagiosa e irregolare alla maniera degli Sparks, e Last Thing On Your Mind, il brano meno
convincente dell’intera raccolta. Quindi, le composizioni più in linea con The Pink Of Condiction, le (stortissime)
filastrocche Means That Much, Last Days in the Factory e My Mine
in cui riemergono le analogie con i lavori solistici di Jonathan Richman e le 69 Love Songs di Stephin Merritt. L’album,
registrato a Los Angeles, si avvale di un team di prestigiosi collaboratori nel
quale spiccano le figure di Cate Le Bon (sodale di Hawkline fin dagli esordi), Stella
Mozgawa batterista delle Warpaint, il tastierista Josiah Steinbrick e l’ingegnere
del suono Samur Khouja già all’opera con Devendra Banhart e Joanna Newsom.
Infine, un consiglio per chi dovesse imbattersi per la prima volta in H.
Hawkline, concedetegli il tempo di un paio di ascolti, oltre alle asperità dei
suoi vocalizzi troverete una sensibilità sfaccettata e un sound originalissimo
diverso da qualsiasi altro ascoltato negli ultimi tempi.
VOTO: 7
Porter Stout, venerdì 30/07/2017