venerdì 30 giugno 2017

H. HAWKLINE – I ROMANTICIZE (Heavenly, 2017)



In tempi di riconversione Elettro/Pop ritenuta necessaria dai più, tiene botta il trentenne gallese H. Hawkline, al secolo Huf Evans, privo com’è di assilli commerciali e poco incline ad assoggettarsi ai cliché dominanti. Lo fa seguendo il flusso della propria ispirazione, trafficando con una voce riconoscibilissima quanto straniante, organizzando giochi chitarristici che dal Folk si spingono fino all’Art/Rock, offrendoci così un altro giro del suo blend sonoro con cui ci aveva già sedotto con l’album della consacrazione, The Pink Of Condiction (Heavenly, 2015), quasi un secondo esordio dopo una manciata di lavori scarsamente distribuiti usciti tra il 2010 e il 2013. Hawkline, divenuto nel frattempo oggetto di un ampio culto, paragonato spesso al Beck di inizio carriera oppure ai conterranei Gorky’s Zygotic Mynci per l’innata capacità di rimescolare i linguaggi musicali della tradizione alterandone i codici, prosegue dunque anche in questo nuovo lavoro a plasmare forme espressive al tempo stesso ricercate e primarie in grado di dar agio ad ambientazioni che cambiano con l’avvicendarsi dei brani in scaletta: sinuose e rarefatte quando si rifà ai cantautori degli anni ’60 e ’70, pregnanti e stridenti quando invece guarda ai protagonisti della New Wave intellettuale di fine ‘70. 




Ora, pur restando fedele alla sua immagine di cantastorie demodé, Hawkline con I Romanticize introduce alcune novità stilistiche: il funkettino accattivante nei brani più ipnotici e movimentati, Engineers, Television, Salt Cleans (immediato il rimando a More Songs About Buildings And Food dei Talking Heads oppure agli album dei portabandiera del minimalismo Post/Punk, i Polyrock), gli umori barrettiani della ballata notturna Last Days in the Factory, l’elettronica a misura d’uomo negli episodi che chiudono il disco, Cold Cuts, canzoncina contagiosa e irregolare alla maniera degli Sparks, e Last Thing On Your Mind, il brano meno convincente dell’intera raccolta. Quindi, le composizioni più in linea con The Pink Of Condiction, le (stortissime) filastrocche Means That Much, Last Days in the Factory e My Mine in cui riemergono le analogie con i lavori solistici di Jonathan Richman e le 69 Love Songs di Stephin Merritt. L’album, registrato a Los Angeles, si avvale di un team di prestigiosi collaboratori nel quale spiccano le figure di Cate Le Bon (sodale di Hawkline fin dagli esordi), Stella Mozgawa batterista delle Warpaint, il tastierista Josiah Steinbrick e l’ingegnere del suono Samur Khouja già all’opera con Devendra Banhart e Joanna Newsom. Infine, un consiglio per chi dovesse imbattersi per la prima volta in H. Hawkline, concedetegli il tempo di un paio di ascolti, oltre alle asperità dei suoi vocalizzi troverete una sensibilità sfaccettata e un sound originalissimo diverso da qualsiasi altro ascoltato negli ultimi tempi. 

VOTO: 7





Porter Stout, venerdì 30/07/2017


giovedì 29 giugno 2017

JASON ISBELL & THE 400 UNIT – THE NASHVILLE SOUND (Southeastern Records, 2017)



Uscire dal tunnel e rivedere la luce. Potremmo riassumere così la storia recente di Jason Isbell, che una feroce dipendenza da droghe e alcool aveva spinto sull’orlo del baratro. Poi, una lenta ma inarrestabile resurrezione, grazie anche al matrimonio con Amanda Shires, songwriter e violinista, che l’ha accompagnato e sostenuto nel difficile percorso verso la salvezza. Oggi, dopo quattro anni dall’acclamato Southeastern del 2013, uno dei dischi di americana più belli di quell’anno, e a due dal seguito Something More Than Free, datato 2015, l’ex Drive-by Truckers torna sulle scene con un nuovo album, condividendo lo studio con i 400 Unit, la band con cui nel 2009 aveva rilasciato il suo secondo album solista. Derry Deborja (tastiere), Chad Gamble (batteria), Jimbo Hart (basso), Sadler Vaden (chitarra elettrica e, ovviamente, Amanda Shires (violino e voce) sono il combo rodatissimo grazie al quale Isbell sforna uno dei suoi dischi migliori di sempre, esibendo quel piglio rock spesso tenuto al guinzaglio di un songwriting votato alla malinconia. Ecco, allora, Cumberland Gap, primo singolo estratto e sferragliante up tempo, che prende esplicitamente ispirazione dal mitico album di Steve Earle, Copperhead Road. Un brano con le chitarre a vele spiegate, che sembra affrontare i problemi di alcolismo da cui Isbell è uscito brillantemente già da qualche anno, ma che, in realtà, come era stato per il brano di Earle, racconta anche il senso di disperazione che pervade l’America rurale, con particolare riferimento, nello specifico, alle comunità scozzesi e irlandesi degli Appalachi. Vibrazioni elettriche che attraversano anche Anxiety, canzone sulla paura di perdere tutto quello che, a fatica, abbiamo conquistato, il cui saliscendi emotivo è segnato dalle bordate della sei corde, strapazzata in un finale in odore di epica. C’è poi l’Isbell che conosciamo, quello delle ballate elettroacustiche dolcemente tristi, come l’opener Last Of My Kind, malinconico affresco di americana in purezza, o il country rock in chiave soul di Tupelo. In White Man’s World, canzone marchiata Muscle Shoals, risuonano le origini sudiste del somgwriter originario di Green Hill e viene affrontato il tema socio-politico dell’emarginazione delle donne, dei neri e dei nativi americani, i cui diritti sono stritolati in un mondo fatto a misura per l’uomo bianco (la polemica con l’amministrazione Trump è evidente). Se Chaos & Clothes è un omaggio col cuore in mano alla musica di Elliott Smith, la conclusiva Something To Love, delicata ballata country scritta per la propria figlia Mercy Rose, chiude splendidamente l’ennesimo grande disco del redivivo Isbell. A fianco del quale, l’immancabile Dave Coob, cesella con un lavoro di produzione impeccabile il nuovo suono di Nashville, che, strano a dirsi, è decisamente più rock che roots. 

VOTO: 8





Blackswan, giovedì 29/06/2017

mercoledì 28 giugno 2017

ANGALEENA PRESLEY – WRANGLED (Thirty Tigers Records, 2017)



Niente a che vedere con il grande Elvis: Angaleena Presley, singer quarantenne originaria del Kentucky, è, invece, una delle componenti delle Pistol Annies (le altre due sono Miranda Lambert e Ashley Monroe), trio country, che in pochi anni ha scalato le classifiche statunitensi di genere, ottenendo un’improvvisa quanto meritata visibilità. Proprio come le sue compagnie d’avventura, anche la Presley ha (più di recente) intrapreso una parallela carriera solista, pubblicando nel 2014 American Middle Class (2014), album che le è valso un’incetta di stellette da parte della critica statunitense. In attesa del nuovo disco delle Annies (di cui ancora non si sa nulla), Angaleena è rientrata in studio per registrare Wrangled, il seguito dell’acclamato esordio di tre anni fa. Assieme a lei, una nutrita schiera di musicisti, alcuni dei quali hanno contribuito in fase di scrittura (Wanda Jackson, Chris Stapleton, Guy Clark, Oran Thornton, che co-produce), altri presenti in veste di sessionisti (Morgane Stepleton, moglie di Chris, Shawn Camp, Jack Ingram, Keith Gattis e, ovviamente, Miranda Lambert e Ashley Monroe). Dodici canzoni in scaletta in cui confluisce il retroterra outlaw della Presley, riletto però con accento moderno e in contesto più ampio, in cui prevalgono rock e pop. Così, a fronte di una classicissima country song come Dreams Don’t Come True (con le Pistol Annies) che apre il disco, Angaleena sfodera una convincente versatilità, rileggendo in chiave pop gli anni ’50 (l’irresistibile High School), scuotendo con scariche noise il country rock di Only Blood (scritta con Chris Stapleton e interpretata con la di lui moglie, Morgane), graffiando con l’adrenalinico up tempo punk rock di Country (quasi una versione cowgirl di Lonely Boys dei Black Keys, con intermezzo hip hop), o ricamando sul velluto della steel guitar di Russ Pahl un morbidissimo country soul radiofonico (la title track). Commuove, poi, risentire la voce di Guy Clark che introduce la splendida Cherry Up Little Darling, l’ultima canzone scritta dal songwriter texano prima di morire, (per l’occasione Shawn Camp, oltre a duettare con la Presley, suona la chitarra utilizzata da Clark per comporre il brano). Senza nascondere le proprie fonti di ispirazione, Wrangled, è però un disco che scavalca gli steccati dell’ortodossia, per presentare una visione moderna, contaminata ed eccitante del roots. Eccellente dalla prima all’ultima traccia.

VOTO: 7,5 





Blackswan, mercoledì 28/06/2017