Il quattro ottobre del 2014, nello storico locale
londinese “The Forum”, la Jim Jones Revue s’è accomiatata dal suo devotissimo pubblico
con un ultimo entusiasmante spettacolo dal vivo la cui testimonianza è custodita
tra i solchi di The Last Hurrah. Il disco
inizia con un cerimoniere di lusso, il grande vecchio del Power Pop inglese Nick
Love, che introduce venti assalti sonori all’arma bianca diretti al cuore del
R’n’R come non si sentiva da tempo. Dentro c’è tutto il Punk, il Blues e il
Garage che hanno reso leggendaria la band capitanata dall’ex Thee Hypnotics e
Black Moses Jim Jones. Tre soli album all’attivo - The Jim Jones Revue (2008) con la complicità di Jon Spencer, Burning Your House Down (2010) e The Savage Heart (2012), entrambi invece
prodotti da Jim Sclavunos dei Bad Seeds - con cui hanno infiammato gli stage
europei e d’oltreoceano conseguendo al contempo ottimi riscontri al botteghino.
Volumi sempre altissimi nel reiterare la messa in scena del lato più selvaggio
del R’n’R, tra il divertimento contagioso del Little Richards di fine anni ‘50
e la furia iconoclasta degli Stooges di Raw
Power, le chitarre spinte a mille all’ora di Jones e Rupert Orton, la
ritmica ossessiva di Gavin Jay e Nick Jones, il pianismo epilettico di Henry
Herbert alla maniera di Jerry Lee Lewis: la vera guida spirituale di Jim e i
suoi Revue! Insomma, il suicidio, abbastanza incomprensibile, di una grande
band nel momento di maggior successo.
I tanti orfani, tuttavia, porteranno il lutto per una
sola stagione perché nel settembre del 2015 il nostro resuscita, con la nuova
ragione sociale Jim Jones &
The Righteous Mind, dando alle stampe il 10’’ Boil Your Blood cui seguirà il 45 giri Aldecide e infine un ultimo singolo, il
recentissimo Till It's All Gone. Prove
tecniche per rodare il nuovo combo (al fianco di Jones e Jay: Phil Martini,
David Page e Joe Glossop) e mettere nel mirino il debutto sulla lunga distanza:
Super Natural. In scaletta, oltre ai
pezzi già citati, altre sette canzoni nuove di zecca che si propongono di
arricchire il sound a cui ci aveva assuefatto il rocker inglese. In alcuni passaggi
si sente, fortissima, l’influenza di Waits e Cave come nel brano d’apertura, Dream, in cui il fervore Post/Punk,
quasi brutale, si tinge di beffarde intuizioni pianistiche, la manierata Base Is Loaded (voce arrochita e blues
scarnificato come Tom insegna), oppure la tensione minacciosa di cui è impregnata
No Fool che rimanda al pessimismo
cosmico dei Grinderman. Già da questi pochi brani si palesa un mood più ombroso
e depresso rispetto al passato della JJR, certo, permane il terrorismo sonico figlio
delle influenze detroitiane che si manifesta nelle avvincenti accelerazioni Proto-Punk
di Boil Yer Blood, e nella vitale
aggressività di Heavy Lounge, Pt. 1 (di
gran lunga l’episodio migliore dell’album). In altre canzoni, meno efficaci,
Jones si reinventa in modalità crooner per alcune ballate notturne: la rodata Aldecide e Shallow Grave in cui sembra di ascoltare un brano minore del
repertorio di Hugo Race. Anche Till It's
All Gone crea un certo sbigottimento, la melodia ricorda pericolosamente
quella di We Are The World e
l’esecuzione di Jim dal piglio springsteeniano non aiuta ad attenuare l’effetto
karoake bar. Chiusura affidata a Everyone
But Me, malinconica slow song con pedal steel
in bella evidenza. Super Natural non
è comunque un brutto disco, semmai multiforme, lungo e di non facile ascolto, l’irruenza
R’n’R e Garage passano in secondo piano (mancano per intenderci gli anthem alla
Elemental oppure alla Dishonest John), lasciandoci la
sensazione che Jones abbia voluto emanciparsi dal Boogie-Woogie punkettaro che
lo ha fatto conoscere ed apprezzare per sperimentare nuove e più intricate vie
espressive. Il risultato convince solo in parte, e per tornare a spellarci le
mani aspettiamo fiduciosi il prossimo giro.
VOTO: 6,5
Porter Stout, venerdì 16/06/2017
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