Sono
quasi vent’anni che la carriera di Joe Henry si divide fra l’attività
di produttore (Allen Toussaint, Lisa Hanningan, Bonnie Raitt, Billy
Bragg, tra gli altri) e quella di musicista, con alle spalle già
quattordici dischi in studio, oggetto di culto, giova precisarlo, di una
nicchia abbastanza circoscritta di appassionati. Musicista colto e
raffinato, songwriter di ballate folk in infusione con essenze jazzy,
Henry ha sempre mantenuto un elevato standard qualitativo, senza
tuttavia riuscire mai a raggiungere quel successo commerciale che
avrebbe da tempo meritato. Questo nuovo Thrum non smentisce l’assunto di
cui sopra e si allinea come ennesimo capitolo di una discografia ostica
ma di gran classe. Un disco dalla struttura coesa, non di facile
assimilazione, che va ascoltato più volte per poterne cogliere le
sfumature e assimilarne l’intrinseca natura melodica. Come per il
precedente Invisible Hour (2014), Joe si avvale di un gruppo di
musicisti rodatissimo, tra cui spiccano il figlio Levon Henry (fiati),
Patrick Warren (tastiere), John Smith (chitarra), Asa Brosius (Steel
guitar) e i fedelissimi Jay Bellerose (batteria) e David Piltch (basso).
Squadra che vince non si cambia, direbbero i calciofili: il risultato,
infatti, è superlativo, il suono è nitido, pulito, essenziale. Henry è
un grande produttore, e si sente; così, anche in quei casi in cui la
scrittura sembra palesare qualche cedimento d’ispirazione, la cura del
suono funge da stampella per garantire comunque un buon risultato
finale. Le undici canzoni in scaletta, come dicevamo, non sono di facile
assimilazione, richiedono tempo e pazienza, ascolti ripetuti.
Lentamente, però, affiora un impianto melodico struggente, si apprezza
il cesello artigianale di certi arrangiamenti, si entra in sintonia con
un cantautorato che ha radici folk ma che trova la sua forza espressiva
in atmosfere jazzate e rarefatte. Tutto scorre lentamente, l’incedere
del disco è fluttuante, morbido, carezzevole, soffuso. E poi c’è quella
voce, così tipicamente americana, così volubile nell’alternanza fra
chiaro e scuro, così nobile nei suoi riferimenti stilistici (il Tom
Waits di Blue Valentine al netto della raucedine) e al contempo così
rassicurante per quel timbro nasale e profondo che da sempre ci
accarezza il cuore. Difficile indicare i brani migliori di una scaletta
di gran classe, ma se fossimo costretti indicheremmo la malinconica Hungry, la scorbutica World Of This Room e il nitore struggente dell’iniziale Climb,
la più immediata del lotto. Thrum è un disco che non regala sorprese,
almeno per tutti coloro che avevano apprezzato il precedente Invisible
Hour, di cui è, in tutta evidenza, la logica prosecuzione. Resta, però,
la certezza di trovarci di fronte a un songwriter di razza, capace di
coniugare l’eleganza estetica a un’introspezione emotiva adulta,
penetrante, genuinamente romantica. Chi ama la canzone d’autore è
servito.
VOTO: 7
Blackswan, venerdì 17/11/2017
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