Chiunque,
almeno una volta nella vita, avrà pensato a come sarebbe bello poter
tornare sui propri passi per modificare il passato, fare ammenda degli
errori commessi, riacciuffare le occasioni perdute, dire le cose che si
sono taciute, tacere quelle che avventatamente si sono dette. La vita,
come tutti sanno, magari può offrirci una seconda possibilità, ma non ci
permette in alcun modo di modificare ciò che è stato né di correggere
in alcun modo gli anni che ci siamo lasciati dietro le spalle. Da questo
punto di vista, l’arte è senz’altro più benevola e ci offre maggiori
chance: così come si può riprendere in mano qualcosa che si era scritto e
riscriverlo meglio, si può anche modificare una vecchia canzone perché
suoni diversa, esattamente come vogliamo che suoni adesso. Non
necessariamente perché quel brano risulta ora meno buono di quando era
stato scritto, ma semplicemente perché non rispecchia più il gusto e la
sensibilità di chi in quel momento l’aveva concepito. Pensate, ad
esempio, a Glenn Gould che nel 1981 incise nuovamente Le Variazioni di
Goldberg di Bach, già registrate nel 1951, perché considerava la prima
incisione non all’altezza. Ecco: con le dovute proporzioni, Lucinda
Williams ha seguito la stessa tardiva resipiscenza, ha ripreso in mano
un vecchio disco, Sweet Old World, pubblicato nel 1992, e l’ha suonato
nuovamente, dall’inizio alla fine, in modo che fosse più attinente alla
sua nuova sensibilità artistica. Si potrebbe pensare a un’operazione
motivata da un calo di creatività, certo, ma è una supposizione che
regge poco, se si pensa che gli ultimi lavori pubblicati dalla
songwriter delle Louisiana (Down Where The Spirit Meets The Bone del
2014 e The Ghosts Of Highway 20 del 2016) sono tra i migliori della sua,
ormai, quasi quarantennale carriera. Semplicemente, l’idea che sta alla
base di questa operazione, è che quel disco, già bello di suo, potesse
essere realizzato meglio. Così, Lucinda ha portato in sala di
registrazione la sua road band (Stuart Mathis alla chitarra, David
Sutton al basso, Butch Norton alla batteria e il grande Greg Leisz alla
lap steel) e in poco tempo l’ha risuonato per intero, apportando
sensibili modificazioni rispetto all’originale. Non solo il titolo (quel
This esprime un punto di vista saldamente ancorato nel presente), ma
anche una band diversa (ai tempi c’erano Gurf Morlix, sia alla chitarra
che dietro alla consolle, e un certo Benmont Tench all’hammond), uno
studio diverso, e un approccio decisamente più rock, più ruvido ed
elettrico. Così, se non fosse per quelle canzoni che i fans hanno ben
stampate in mente, l’album suonerebbe davvero come qualcosa di nuovo,
soprattutto per la voce della Williams, che il tempo ha arricchito di
sfumature, rendendola forse meno pulita, ma senza dubbio più intensa e
profonda. Questa nuova versione è stata arricchita di quattro inediti,
scritti durante la genesi del disco del 1992 (ma poi rimasti nel
cassetto) e che testimoniano l’ottimo livello di ispirazione di quegli
anni (davvero buona Wild And Blue), anche se in definitiva non
aggiungono nulla di particolarmente rilevante a quello che è il piatto
forte, e cioè la scaletta originaria. Le grandi canzoni, infatti, si
sprecano: dal riff byrdsiano dell’iniziale Six Blocks Away alla conclusiva Which Will, morbidissima cover dal repertorio di Nick Drake, passando attraverso al fragore chitarristico di Pineola, al sabba blues rock di Hot Blood e alle scariche elettriche che accendono la quiete notturna di Sidewalks Of The City.
In attesa del nuovo album in studio, la Williams si è presa il tempo di
rimettere mano al forziere delle sue gioie e di rispolverare un
gioiello del proprio passato: adesso, Old Sweet World è tornato a
brillare di una lucentezza diversa, che ne ha aumentato ulteriormente il
valore.
VOTO: 7,5
Blackswan, giovedì 02/11/2017
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