Originari
di Bath, centro termale della contea di Somerset, Roland Orzabal e Curt
Smith, danno vita da giovanissimi ai Graduate, gruppo di mod revival
(vedi Jam), che nel 1980 piazza un singolo, Acting My Age,
nella top 100 britannica. I Graduate però rappresentano solo un
trampolino di lancio per il duo, che ha in testa tutta un’altra musica.
Orzabal e Smith si sentono maggiormente attratti dal post punk e da
quelle nuove sonorità elettroniche che stanno marcando la nascente epoca
del synth pop e della new wave. Abbandonati alla loro sorte gli altri
componenti dei Graduate, i nostri eroi formano un nuovo gruppo, The
History of Headaches, a cui quasi subito cambiano nome in Tears For
Fears, ispirandosi a un trattamento psicoterapeutico inventato dallo
psicologo Arthur Janov. Orzabal e Smith hanno le idee ben chiare:
fondere il rock sixties di matrice beatlesiana con il pop, l’elettronica
e una punta di soul e di psichedelia. Grazie al produttore Dave Bates
vengono messi sotto contratto dalla Phonogram Records, che nel 1981
pubblica il loro primo 45 giri, Suffer The Children. Dopo altri due singoli di successo, Pale Shelter (1982) e Mad World
(1983), esce il loro primo full lenght, The Hurting (1983). Se è vero
che fin dai primi ascolti si capisce che Orzabal è cresciuto con
l’intera discografia dei Beatles sotto il cuscino, e altrettanto vero
che i due sono bravi ad attualizzare e rinfrescare quelle melodie, e a
rimeditare in chiave adulta il synth pop che impazza in quegli anni,
usando le tastiere con gusto ed equilibrio, senza disdegnare però l’uso
delle chitarre. L’album, quasi un concept sull’infanzia difficile
vissuta da Orzabal (la foto del bambino in copertina è in tal senso
assai esplicita), piace molto al pubblico inglese, così tanto che in
breve tempo vola al primo posto delle charts britanniche. Merito di un
pugno di singoli dalla melodia irresistibile: oltre ai citati Mad World (che Gary Jules riporterà al successo nel 2005 reinterpretandola per la colonna sonora del, sopravvalutato, Donnie Darko), Suffer the Children e Pale Shelter, a far sfracelli è soprattutto un brano molto dance intitolato Change,
premiatissimo nelle vendite anche in Italia. Spinti dall’inaspettato
successo dell’esordio, i Tears For Fears, perfezionano la loro idea di
musica, distaccandosi ulteriormente dal synth pop, e rendendo sempre più
complessi i testi delle canzoni, che oltre alla psicologia e
all’infanzia, questa volta rivolgono uno sguardo anche alla scena
politica nazionale e internazionale. Quando esce Songs From The Big
Chair (1985), il nuovo suono è frutto di un impasto equilibratissimo fra
rock e pop, che parla un linguaggio universale e scala le classifiche
di tutto il mondo (USA compresi), arrivando addirittura a conquistare
quattro dischi di platino. L’ispirazione è ai massimi livelli, le
melodie acquistano qualità grazie a un taglio malinconico e, talvolta,
ombroso, che non toglie però brillantezza a brani che possiedono un alto
contenuto energetico. Così su MTV e per radio impazzano veri e propri
tormentoni (di qualità) che portano il nome di Shout (potente, tribale e solenne) ed Everybody Wants To Rule The World (entrambe prime negli Stati Uniti). A ben ascoltare, però, c’è altro e anche meglio: il blues sofferto di I Believe, il basso pulsante che introduce il rock adrenalinico di Broken, la solarità funky dell’incredibile Heads Over Heels,
irresistibile esplosione di vitalità adolescenziale e forse la loro
miglior canzone di sempre. Dopo quattro anni di guadagni e lodi
sperticate, i Tears For Fears tornano sulle scene con un album che si
discosta non poco dai suoi due predecessori. The Seeds Of Love (1989),
costato un milione di sterline e il quasi fallimento della Mercury
Records, si presenta come un disco raffinato, pretenzioso e ricco di
sonorità jazzy e soul che levigano elegantemente la grande passione di
Orzabal per i Beatles. Non tutto è centrato, a tratti il suono si fa
verboso e ricco di orpelli, e la super produzione con ospitate di grido
(Phil Collins, Manu Katchè, Oleta Adams), imbolsisce un po’ il tutto. Le
cose buone, comunque, non mancano, a partire dal singolo Woman In Chains (straordinaria interpretazione vocale di Oleta Adams), alla hit Sowing The Seeds Of Love,
beatlesiana fino al midollo e venata da una polemica a distanza con
Paul Weller, accusato di aver messo fine all’avventura Jam (“kick out the styles, bring back the jam”), e al soul cristallino di Advice For The Young At Heart,
sicuramente la miglior canzone del disco. Alla fine delle registrazioni
Smith se ne va, sbattendo la porta, stufo dell’egocentrismo di Orzabal e
del suo modo cerebrale e pignolo di approcciarsi a composizione e
produzione. Dal canto suo, Orzabal, che ha ormai perso il suo tocco
magico, si tiene stretto il marchio di fabbrica e continua a sfornare
dischi, questa volta, però, non particolarmente ispirati. Elemental
(1993), dalle sonorità marcatamente soul, e Raoul And The King Of Spain
(1995), un pretenzioso concept album privo di leggerezza e divertimento,
sono un flop in termini di vendite e mostrano una creatività da raschio
del barile. Nel 2001, Orzabal e Smith, che per tutto il decennio
precedente non avevano smesso di attaccarsi e insultarsi attraverso la
stampa specializzata, finalmente si riappacificano, tornano a
frequentarsi, meditano la reunion e cominciano a pensare a un nuovo
album. Dopo numerose traversie, e solo nel 2005, viene alla luce
Everybody Loves A Happy Ending, che sotto il titolo autoironico nasconde
un buon lavoro, in cui è ancora la passione per la musica dei Beatles a
farla da padrona, anche se questa volta l’elettronica è quasi
completamente abbandonata in favore di strumenti acustici. Splendida la title track,
migliore episodio di un album che, nonostante l’impegno del duo, vende
davvero pochino. Oggi, Orzabal e Smith, superata abbondantemente la
cinquantina, hanno ritrovato intesa ed equilibrio, registrando cover
(bellissima Ready To Start dal repertorio degli Arcade Fire) e
lavorando al nuovo album che, dopo annunci e smentite, dovrebbe essere
pronto per la primavera del 2018. In tale attesa, la band ha pubblicato
il 10 novembre di quest’anno Rule The World, ennesimo greatest hits,
contenente sedici canzoni, di cui undici già presenti in Tears Roll Down
(1992), due prese da lavori più recenti (Break It Down Again da Elemental e Raoul and the Kings of Spain
dall’omonimo album) oltre a due inediti. La registrazione è
scintillante (si coglie davvero l’essenza di composizioni che possiedono
ormai le stigmate di ever green), ed è questo forse l’unico motivo per
approcciarsi a un repertorio arcinoto. I due nuovi brani (erano ormai
tredici anni che i fans attendevano un inedito), a dirla tutta, non
sono, infatti, un granché: Stay è un lentone sofferto, ma abbastanza ovvio (siamo dalle parti degli ultimi Coldplay) mentre I Love You But I’m Lost, modernissima
nei suoni, è un brano dance molto ruffiano ma povero di contenuti.
Ottimo vademecum per neofiti, sostanzialmente inutile per tutti gli
altri.
VOTO: 7
Blackswan, sabato 02/12/2017
3 commenti:
Un gruppo che mi ha accompagnato nella mia gioventù e che ho ascoltato molto volentieri, un pò diverso dal genere che ascolto ma altrettanto bravi.
Passavo di qua per un saluto e perché mi piace molto il tuo spazio lo seguo molto volentieri.
@Angelo: grazie, sei sempre molto gentile.I miuei sono gusti decisamente più rock, ma i TFF, che ho seguito in gioventù, avevano un modo di rileggere il synth pop che li poneva un gradino sopra a molti gruppi coevi. Anche io vengo a sbirciare il tuo bel blog.
A presto.
Gli anni '80 sono sempre troppo sottovalutati, aspetto le tue prospettive sui Talking Heads
p.s., si sono tornata XD
*InI*
*MaryA*
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