C’era
molta attesa per questo disco d’esordio a firma Devin Dawson, e da
tempo la stampa specializzata americana ne parlava come una delle
possibili rivelazioni del 2018. Continui rumors, sempre più ingigantiti
dall’inspiegabile successo del primo singolo tratto dall’album, All On Me,
canzone che su Spotify ha avuto più di 43 milioni di streaming e che
qualche giorno fa era sul punto di entrare nella top ten della Country
Airplay Chart (oggi ce la trovate di sicuro).
La
suggestione (o autosuggestione), poi, era cresciuta moltissimo per
l’hype creato ad arte dal songwriter californiano, il quale, le cronache
raccontano, è cresciuto a due passi dalla leggendaria Folsom Prison e
da sempre sfoggia un look virato verso il total black. Circostanze,
queste, che hanno spesso indotto a paragoni forzatissimi con il padre
del roots a stelle e striscie, Johnny Cash.
Del
quale, basterebbe un solo ascolto del singolo sopracitato, Dawson ha
ereditato solo la passione per gli abiti scuri e una fortunata
coincidenza geografica. Per il resto, questo primo, tanto atteso, Dark
Horse, è quanto di più concettualmente lontano si possa immaginare dalla
musica che usciva dalla voce e dalla chitarra di “the man in black”.
Certo, alcune performance live acustiche, messe in rete lo scorso anno,
avevano tratto in inganno e fatto presagire per Dawson altissimi
standard qualitativi, di cui in questo esordio non c’è, però, quasi
ombra.
Insomma,
chi si aspettava dal ventottenne californiano un disco di country duro e
puro, avrà una cocente delusione, perché in questo esordio il roots,
sempre ammesso che vi sia, è così annacquato da essere pressoché
impalpabile. Strano, quindi, che di Dark Horse stiano parlando, e anche
in termini lusinghieri, tutte le riviste di settore (che sono tante): le
canzoni in scaletta, inutile girarci intorno, sono, infatti,
smaccatamente pop, e solo a tratti vengono rimescolate a vaghe
sensazioni soul e r’n’b, plasmate però a evidenti esigenze commerciali.
Insomma, siamo di fronte a un disco furbissimo, debordante di ganci
melodici e impermeabilizzato da una patina radiofonica talvolta ai
limiti dello stucchevole. Questa, è la Nashville che impera in America,
quella del mainstream che vende milioni di copie, ma che risulta
indigeribile agli amanti del vero country.
Un
lotto di dieci canzoni, prodotte da Jay Joyce (già con Eric Church) e
confezionate con artificiosa eleganza, che procedono in senso unico: far
vendere l’album e scalare le charts. Non solo All On Me, canzonetta d’amore post adolescenziale e autentico tormentone, ma anche lentoni soul alla melassa (Secondhand Hurt), ammiccanti poppettini in chiave dance (Placebo) e tamarrate riempipista da balera di quart’ordine (War Paint).
Chiude la title track,
unica nota positiva di un disco altrimenti inascoltabile, almeno per
tutti quelli che hanno più di diciotto anni e non soffrono di paranoie
autolesioniste. Peccato, perché in quest’ultima canzone, depurata dal
solito arrangiamento lezioso, si intravvede qualcosa, una luce in fondo
al tunnel che si chiama sincera ispirazione. Delusione totale.
VOTO: 4
Blackswan, sabato 28/01/2018
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