10. WOLF ALICE – VISION OF A LIFE (Dirty Hit,
2017)
Il tratto più saliente
del disco, però, sono la superiore verve compositiva e la definitiva
codificazione di uno stile, elementi che testimoniano di una maturità già
completamente raggiunta. Sono queste le caratteristiche che permettono di
rendere omogeneo un disco estremamente composito, di far convivere in armonia
generi e suoni derivati, certo, ma riadattati secondo l’abbecedario alternative
del nuovo millennio. Heavenworld apre il disco riverberando melodie
dal sapore dream pop, tra accecanti esplosioni di luce elettrica e carezzevoli
barbagli di sole. Un mood sognante che si sgretola nella successiva Yuk Foo,
sciabolata post punk attraversata dalla voce assassina di Ellie Rosewell e da
echi mancuniani alla Joy Division. Gli umori mutano repentinamente con la
successiva Beautifully Unconventional, stiloso indie rock alla Garbage
dall’irresistibile appeal radiofonico. Tre canzoni, tre generi diversi, uno
stile unico. E questa la vera forza di un disco, in cui ogni brano rappresenta
un’autentica sorpresa.
9. PAUL WELLER – A KIND
REVOLUTION (Parlophone, 2017)
E poi, ci sono,
soprattutto, le canzoni, tutte notevoli, e alcune talmente belle che il primo
termine di paragone che viene in mente è quello di un certo Stanley Road. In
tal senso, due straordinarie ballads, Long Long Road e The Impossibile Idea,
riproducono il meglio di quel songwriting in equilibrio tra echi beatlesiani e
influenze soul che da sempre rappresentano il marchio di fabbrica di Weller. Il
disco, pur imboccando percorsi già noti, suona vario ed efficace per tutta la
sua durata, sia quando il modfather imbraccia la chitarra elettrica con la
grinta dei bei tempi (il r’n’b in acido della spettacolare Woo Se Mama, lo
scatenato wah wah di Satellite Kid), sia quando ricama dissonanze elettroniche
in chiave psichedelica (Nova), sia quando chiama a fianco a sé la tromba di un
redivivo Robert Wyatt nel funky soul di She Moves With The Fayre o tenta un
riuscito azzardo dance con la complicità di Boy George (la sciccosissima One
Tear). A Kind Revolution , dunque, non solo è uno dei dischi più belli
ascoltati quest’anno, ma è probabilmente la miglior prova della carriera più
recente di Weller. Il quale, con questa rivoluzione gentile, dimostra per
l’ennesima volta di essere uno degli artisti più seminali e influenti del panorama
britannico e, soprattutto, di aver davanti a sé un luminoso futuro. A dispetto
dell’età che avanza.
8. GREGG ALLMAN –
SOUTHERN BLOOD (Rounder Records/Universal, 2017)
Nonostante la
debilitazione fisica di Gregg, già da tempo malato e ormai prossimo alla morte,
Southern Blood non sembra risentirne: non si tratta, dunque, di un canto del
cigno triste solitario y final, ma di un brillante tassello conclusivo di una
carriera straordinaria. Certo, il disco è attraversato da quel senso di
nostalgia che sempre anticipa una perdita, ma nonostante il mood talvolta
meditabondo, Southern Blood non perde un briciolo della sua energia,
acquistando semmai ulteriore fascino. In scaletta un solo brano originale (il
singolo My Only True Friend) e nove cover scelte con intelligenza fra
la musica che da sempre appassionava Gregg. Ne risulta un disco che, pur carico
degli afrori sudisti di cui sono impregnati gli studi Fame, riesce a essere
estremamente vario nella proposta, mostrandoci un musicista che, a dispetto del
precario stato di salute, ha ancora tanta voglia di stupire.
7. THE ORPHAN BRIGADE -
THE HEART OF THE CAVE (Appaloosa Records, 2017)
L’originalità del
progetto, però, non sta solo nell’aver spostato il baricentro della narrazione
a migliaia di chilometri da casa, ma aver scelto, semmai, il cuore della terra,
e cioè i famosi cunicoli sottostanti la città marchigiana, come location ove
dar forma alle tredici canzoni in scaletta. Un fitta rete di gallerie percorre
a più livelli il sottosuolo di Osimo: a cosa fossero destinate, vista la
scarsità di fonti scritte, resta ancora un mistero. Si ipotizza che alcune
gallerie potessero avere scopi difensivi e che alcuni cunicoli fossero al
servizio di cisterne e fonti; tuttavia, la presenza di stanze circolari e di caverne
particolarmente ampie inducono a pensare che questi anfratti fossero utilizzati
anche per rituali religiosi e in alcuni casi fossero persino abitati. Ecco
allora l’idea di raccontare questi luoghi ricchi di storia e di misteri, per
dar vita a una riflessione sulla vita e sulla morte, sul misticismo religioso e
sulle leggende locali, tramandate nei secoli fino a noi. Se il folk di
Soundtrack Of A Ghost Story era ammantato di epicità e rileggeva uno dei
momenti più dolorosi della storia americana, Heart Of The Cave è invece in
bilico fra estasi e dannazione, tra misticismo e immanenza: si respira il
divino (The Birds Are Silent), certo, ma anche la caducità dell’essere
umano (il disco si apre con Pile Of Bones: “non lasciamo che un
mucchio di ossa, non lasciamo nient’altro”), la morte, la paura, il senso
di smarrimento, un ansiogena ricerca della luce. Un folk, a tratti, austero (Osimo
Come To Life, Meet Me In The Shadows), in altri casi, invece,
delicatamente nostalgico (la superba Pain Is Gone), in cui il tratto
acustico è predominante e la strumentazione evoca fragranze celtiche filtrate
attraverso la sensibilità dell’America più rurale (There’s A Fire That
Never Goes Out). La bellezza di Heart Of The Cave non risiede solo nel
cesello artigianale di composizioni senza tempo, ma soprattutto nella ricerca
storica e letteraria che sottende all’opera e che svela un mondo così vicino a
noi eppure, al contempo, spesso dimenticato.
6. SAM BAKER – LAND OF
DOUBT (Indipendent, 2017)
Questo nuovo Land Of
Doubt potrebbe allora rappresentare il così detto disco della svolta, quella
consacrazione, cioè, che uno degli artisti più interessanti dell’attuale
panorama texano merita per la qualità del lavoro svolto finora. Difficile,
ovviamente, che questo disco possa entrare in qualche classifica di vendita, ma
un importante e definitivo riconoscimento da parte della critica è a dir poco
doveroso. Siamo, infatti, di fronte a un songwriting intenso ed evocativo, che
parte dalle basi dell’americana, arricchendola però di melodie sghembe,
soundscapes cinematografici, arrangiamenti inconsueti che vibrano sulle note
della tromba jazz di Dan Mitchell o avvolgono nei serici archi di David Henry e
Eamon McLoughlin. Una musica che ricorda da vicino quella di Vic Chesnutt e
Mica P. Hinson, altri due magnifici perdenti che, al pari di Baker, hanno
creato un immaginario di canzoni malinconiche e dall’incedere obliquo, in cui
le esitazioni, i vuoti, gli angoli cechi diventano il centro espressivo di una
scrittura tanto colloquiale quanto languida. Non un disco immediato o di facilissima
assimilazione, ma un flusso di suggestioni che, lento e inesorabile, canzone
dopo canzone, saprà toccarvi il cuore.
5. CRAIG FINN – WE ALL
WANT THE SAME THINGS (Partisan Records, 2017)
E’ un disco umorale, We
All Want The Same Things, in bilico fra le malinconie metropolitane rese
meravigliosamente dalla foto di copertina, ma anche attraversato da un’energia
rock che trasfigura, mitigandolo, il contenuto di liriche incentrate su
relazioni affettive fondate sull’opportunismo, destinate al fallimento o
incapaci di colmare il male di vivere. L’iniziale Jester & June è un gioiello
compositivo di imprevedibilità, una canzone che trova la sua forza emotiva nei
continui cambi di registro: un sax moribondo ad aprire le danze, la voce di
Finn che sputa le parole, una a una, accordi di chitarra in minore, un drumming
in mid tempo sgranato e un assolo folgorante effettato wah-wah. Una canzone che
di primo acchito lascia interdetti, e che poi cresce, ascolto dopo ascolto,
conquistandoci con i suoi sottintesi melodici e l’originalità
dell’arrangiamento. La successiva Preludes aggancia l’ascoltatore con una
tastierina lo-fi su cui si sviluppa una melodia semplice, ma irresistibile. Il
beat di Ninety Bucks gira dalle parti di Willie Nile e colpisce nel segno con
un icastico ritornello (Nathan, you’re my
only friend) che suggella una storia d’amicizia. Il cuore del disco, God In
Chicago, interrompe il filo del discorso, costruendo, attraverso poche note di
pianoforte, un piccolo romanzo in musica, in cui lo spoken word di Finn ricorda
la propria adolescenza vissuta a St. Paul (Minnesota), città dove il nostro è
cresciuto. La liquida tristezza di Be Honest, ballata in chiave
springsteeniana, chiude un disco non immediato, curato negli arrangiamenti,
figlio di una ricerca melodica che si sviluppa lontano dall’ovvio, il cui
valore aggiunto sono le liriche di Finn, sensibile storyteller di amori e
amicizie, di nostalgici ricordi e crudele realtà, di uomini e donne che
lottano, che perdono e si perdono. Cuffie sulle orecchie, booklet alla mano, un
po' di pazienza e We All Want The Same Things saprà conquistarvi
definitivamente. Perché in fin dei conti, tutti vogliamo le stesse cose: buona
musica e parole sincere che tocchino il cuore.
4. CAROLINE SPENCE –
SPADES & ROSES (Self- Released, 2017)
Caroline è un talento
puro, una cantautrice nel senso stretto della parola, che cura, cioè, con
attenzione tanto la musica quanto i testi, entrambi componenti essenziali della
sua musica. L’equilibrio perfetto di ogni singolo brano, la ricerca della
melodia in purezza, gli arrangiamenti discreti e minimali, eppure tutti
decisivi, e le liriche pervase da un ingenuo romanticismo, producono come
risultato un pugno di canzoni più adulte della sua giovane età. Canzoni,
che la Spence addomestica grazie a un soprano dolcissimo, all’apparenza
delicato ed esile, ma che alla resa dei conti suona potente per estensione e
incisivo per espressività. Spades & Roses non è certo un disco per
allegroni ed è pervaso per tutti i quarantacinque minuti della sua durata da un
profondo mood malinconico; eppure, il senso della melodia è così spontaneo e
centrato, e la voce della Spence così coinvolgente, che lo spleen passa in
secondo piano di fronte a un songwriting a dir poco cristallino. Così, se si
chiudono gli occhi, quando parte la citata Heart Of Somebody, si prova la
sensazione di librarsi in cielo sospesi sulle note morbidissime di una
carezzevole lap steel. Tutto è perfetto stato di grazia: le strofe, il
ritornello, il ponte, l’eterea melodia.
3. JILLETE JOHNSON –
ALL I EVER SEE IN YOU IS ME (Wind-Up Records, 2017)
Jillette suona il piano
e canta, con un timbro da soprano nitido, cristallino, potente. Niente a che
vedere, però, con Regina Spektor o Tori Amos, artiste con le quali verrebbe da
fare un immediato paragone. La Johnson somiglia per mood più a una Lana Del Rey
meno torbida e crepuscolare, e per creatività compositiva, invece, non è
affatto peregrino un paragone con Laura Nyro. Jillette scrive canzoni che
potremmo definire di adult pop, se la definizione non fosse assolutamente
riduttiva: nella sua musica, infatti, confluiscono elementi west coast,
americana rivisitata in chiave indie, melodie pop da FM seventies e leggere
inflessioni jazzy. Il tutto condito da una vena drammatica che non sfocia mai
nel melò, ma che vibra semmai di autentico pathos. Se a produrre, poi, è il
plurivincitore di Grammy Awards, Dave Cobb (Jason Isbell, Chris Stapleton,
Sturgill Simpson) il risultato è garantito. Le undici canzoni in scaletta vi
ruberanno il cuore, statene certi.
2. RIHANNON GIDDENS –
FREEDOM HIGHWAY (Nonesuch Records, 2017)
Una scaletta che
racconta la piaga mai cauterizzata del razzismo, la lotta per i diritti civili,
la condizione della donna, tutti temi, questi, trattati con consapevolezza
storica, con la grinta di chi non smette di combattere e tiene la schiena
dritta e lo sguardo rivolto al futuro e alla speranza. Un’opera che, in
un’America malata di trumpismo, dove l’etnia e il colore della pelle sembrano
tornati a produrre impulsi ferocemente discriminatori, suona come un
schieramento deciso e un coraggioso atto d’accusa. In Freedom Highway, la
Giddens tratteggia la storia civile dell’America nera e la musica che ha fatto,
e fa, da sottofondo alla narrazione: tredici canzoni che si muovono tra il
fango del Mississippi e i borghi rurali della Carolina, che partono dalle
piantagioni di cotone e attraversano tutto il Sud, spingendosi fino alle
periferie ghettizzate delle grandi metropoli. In quest’ottica, Rhiannon sfodera
un repertorio in grado di coagulare in tredici canzoni suoni antichi e moderni,
in cui la parte del leone la fanno blues, folk e gospel, ma capace anche di
incursioni nelle sonorità dixieland della divertita Hey Bebè, nel groove
irresistibile di Better Get It Right The First Time, cadenzato dalle ritmiche
funky e rap della città, nelle scosse acide di Come Love Come, nei cromatismi
jazzy di The Love We Almost Had o nell’epica funky della title track,
reinterpretazione di un brano scritto dalle Staple Singers nel 1965, a sostegno
di una marcia per i diritti civili avvenuta in Alabama (c’è Bhi Bhiman al canto
e alla chitarra). Attraverso una voce duttile e ricca di pathos e un banjo
puntuto, solenne e ammaliante, la Giddens compone un vivido songbook delle
radici musicali afro-americane, attualizzando la dolente tensione che innervava
un brano simbolo come Strange Fruit, e raccontandoci, con linguaggio scarno e
diretto, la ballata di un popolo vessato e discriminato e, nel contempo, la
tragedia universale di tutti i perseguitati e i reietti. Se non è un
capolavoro, poco ci manca.
1. CHRIS THILE & BRAD MEHLDAU - CHRIS THILE & BRAD MEHLDAU (Nonesuch records, 2017)
Inutile soffermarci sull’ovvio, e cioè sulla tecnica mostruosa dei due musicisti, i cui virtuosismi, e non potrebbe essere altrimenti, abbondano per tutta l’ora e passa di ascolto. Ma non è questo il punto, o almeno non è la cosa più interessante. L’aspetto davvero esaltante della vicenda è semmai la capacità di Thile e di Mehldau di trovare il punto di fusione fra le rispettive esperienze musicali, riuscendo a creare un innovativo e intenso melange sonoro, nel quale confluiscono jazz, blues, classica, pop e roots americano. In scaletta ci sono alcuni brani originali, scritti per l’occasione, e alcune cover rilette con gusto dai due musicisti: il tocco introspettivo di Mehldau, la sua capacità armonica, gli accenti di derivazione classica e l’approccio popolare richiamano alla mente un grandissimo come Bill Evans; dal canto suo, Chris Thile, è abile a utilizzare il mandolino anche in chiave ritmica (questo è l’aspetto concettualmente più innovativo) e a usare il suo falsetto sghembo in modo tanto inusuale quanto fascinoso. Nonostante l’apparente osticità della proposta, il disco scorre fluido e carico di suggestioni, regalandoci alcune vette compositive, come l’introduttiva strumentale The Old Shade Tree, in cui i due dimostrano subito di che pasta sono fatti, o la successiva Tallahassee Junction (a firma Mehldau), un labirinto di scale (e di assoli), che nemmeno la biblioteca de Il Nome della Rosa. Molto bene anche le cover, tra cui un’ispiratissima Indipendence Day di Elliott Smith (bella da groppo in gola) e l’immancabile Dylan della sublime Don’t Think Twice It’s Allright, giocata tutta su cambi ritmo e improvvisazione. Nel suo calcolato azzardo, Chris Thile & Brad Mehldau coglie, dunque, in modo sublime la sintesi perfetta fra musica colta e popolare, ponendosi come uno dei dischi più spiazzanti, innovativi e originali del 2017. Un gioiello a cui è davvero impossibile rinunciare.
Blackswan, venerdì 05/01/2018
7 commenti:
Sempre interessantissimi, stimolanti ed estremamente personali i tuoi consuntivi di fine (o inizio) anno.
@ Monty: grazie, Monty, sempre gentilissimo! :)
10 dischi che non valgono una famous blue raincoat nemmeno sotto effetto di due litri di vino...
Sincerely, L Cohen
@ Giuseppe: sei riuscito a rescitare un morto. Dovresti avere più rispetto.
@ Giuseppe: e peraltro, sul tuo blog, c'è solo musica di merda. Battisti e gli Script...ma perchè parli ancora...
Si parte bene con i Wolf Alice, poi il disastro.
Sul serio quelle due lagne avrebbero tirato fuori il disco dell'anno? ahahahah :D
@ Marco: solo perchè certa musica bisogna anche avere gli strumenti per capirla :)
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