Ci
sono dischi così intimi e profondi, che recensirli è come tradire un
segreto, svelare una confidenza, rompere un vincolo esclusivo e
inconfessato. Non avrei voluto scrivere nemmeno una riga di Araba
Fenice, opera seconda di Katres, al secolo Teresa Capuano, giovane
artista catanese, trapiantata a Napoli; avrei voluto, invece, conservare
queste preziose canzoni solo per me, tenerle in serbo per una sorta di
pudore che nasce dalla condivisione dei sentimenti e da quella magia di
immedesimazione che si crea, talvolta, tra l’artista e l’ascoltatore.
Se
scrivere di musica, però, ha un senso, questo sta proprio nel divulgare
la bellezza, nel fare da tramite fra chi la bellezza l’ha creata e
coloro che ne possono godere. E’ difficile esprimere con chiarezza le
suggestioni di un disco che supera per intensità e intelligenza la media
di ciò che siamo abituati ad ascoltare, spesso, peraltro, senza
renderci nemmeno conto che anche fuori dai consueti circuiti mainstream,
nazionali e internazionali, possiamo scovare autentici gioielli, ahimè,
spesso snobbati.
Con
Araba Fenice, Katres ridisegna la mappa dei suoi (nostri) sentimenti,
riscrive la geografia del cuore e traccia le coordinate di un
romanticismo puro, e al contempo ragionato, lontano anni luce dalla
sciatteria sentimentale che troppo spesso ammorba le nostre orecchie.
C’è più vita che arte, in queste nove canzoni, e non è certo una vita
che scorre come un lungo fiume tranquillo, che viene declinata
attraverso la consunta assonanza fra cuore e amore.
C’è
semmai quell’alternarsi di gioia e dolore, quell’altalena impazzita tra
sprofondi di buio e luminosi barbagli di sole, che ci spiazza,
lasciandoci senza difese, e che in alcun modo possiamo controllare. La
vita è feroce e non fa sconti, e noi siamo fragili giunchi in balia di
una tempesta in un mare immenso e senza sponde. Le nostre ferite, quel
dolore sordo che si annida fra le pieghe dell’anima, ci ricorda ogni
giorno quanto siamo fragili e caduchi. Possiamo soccombere, arrenderci e
smettere di combattere. Oppure, possiamo reagire, rifiutare un destino
già scritto e, come l’Araba Fenice, rinascere dalle nostre stesse
ceneri.
E’
questo il senso di un disco che all’hype di un’ovvia gamma di colori
predilige il chiaro-scuro, che sa essere al contempo lieve e profondo,
che fa del misurato distacco l’arma per cogliere l’essenza delle
emozioni, che gioca sulla contrapposizione tra liriche ironiche,
talvolta salaci, e una declinazione nostalgica, ma non arresa, dei
sentimenti. Sono canzoni, quelle di Araba Fenice, che ci accarezzano con
malinconica dolcezza, ma che sanno anche scuoterci con forza,
strattonandoci verso la riflessione; che si insinuano sottopelle grazie a
melodie accattivanti, ma che non imboccano mai la strada accomodante
della consolazione, preferendo sferzare l’ascoltatore con liriche
dirette, che non possono essere fraintese.
Canzoni
con i piedi ben saldi nella tradizione dell’indie italiano (evito
inutili paragoni: Katres non ha bisogno di riferimenti stilistici per
essere raccontata), ma a cui la produzione (icastica, asciutta, mai
ridondante) di Daniele Senigallia dona un’ampiezza di respiro
internazionale.
E
poi, come accennato prima, c’è un’inusuale cura per i testi. Non è solo
questione di ritmo, o di scelta delle parole o di ricercatezza delle
immagini: la differenza con il consueto risiede nel fatto che Katres
dice cose intelligenti e non sacrifica un solo verso all’altare della
banalità. Porterei a esempio Non Chiamarmi Amore, arguta
riflessione sulla vita di coppia, in cui la protagonista afferma la
propria precisa identità, il nome e non un nomignolo, nella
consapevolezza che l’io non può essere mai annullato
nell’indeterminatezza del “noi”. E che dire di quel verso fulminante che
apre la title track (“Balsamo che lenisce le ferite, petalo di seta cresce fra le spine”),
così poetico e preciso nel raccontare il momento esatto in cui si
percepisce l’inizio della rinascita, quell’attimo in cui si guarda solo
al presente per iniziare una piccola, grande rivoluzione interiore?
Resta
solo un’ultima nota a margine: il timbro vocale di Katres, così
sensuale e ammiccante, nasconde anche indubbie capacità tecniche, che
emergono con prepotenza nella cupa (e più scarna) interpretazione di Mokarta,
canzone del gruppo messinese dei Konsertu. Una cover, mi permetto di
usare un termine abusato ma chiarificatore, da pelle d’oca, e ciliegina
sulla torta di un disco, tra i migliori ascoltati in questo primo
squarcio del 2018.
Katres,
ancorché giovane e solo alla seconda prova sulla lunga distanza, è
un’artista con una personalità unica e destinata a grandi cose. Non
serve che ve lo racconti io, anche se ci ho provato, basta ascoltare le
sue canzoni: sincere, dolcemente scorbutiche, tutte egualmente decisive.
Chapeau!
VOTO: 8
Blackswan, domenica 25/02/2018
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