Ben
vengano giovani come King Leg, che esordisco con un album che tracima
passione ed entusiasmo. E ben vengano, sia chiaro, anche se non sempre
dimostrano di saper gestire la materia con la necessaria sapienza e
talvolta si perdono nel groviglio di idee interessanti, ma non sempre
messe a fuoco. Sono i difetti della giovane età, che il tempo e il
talento sapranno, forse, trasformare in virtu’. E di talento, Bryan
Joyce, in arte King Leg, ne ha da vendere.
Nato
a Omaha, nel Nebraska, Bryan è cresciuto con il sogno di diventare
comico. Poi, un trasferimento a Nashville, ha sparigliato le carte in
tavola e il giovane King Leg ha iniziato a suonare, avendo come punti di
riferimento il classic country, il rock ‘n’ roll delle origini e la
musica alternative degli anni ’80 e ’90. Un altro trasferimento, questa
volta a Los Angeles, ha dato l’abbrivio a qualcosa di più serio, la
firma con la prestigiosa etichetta Sire Records (quella dei Ramones, per
intenderci) e la composizione di un lotto di canzoni confluite in
questo primo album, benedetto dalla produzione di Dwight Yoakam e Chris
Lord-Alge (noto anche da noi per aver collaborato con Caparezza).
Che
dietro la consolle ci siano due fuoriclasse si coglie fin dalle prime
note: il suono è scintillante, le atmosfere producono un’interessante
amalgama fra classico e moderno e mettono in risalto quell’energia
evocata dalla spaccata che immortala Bryan nella cover dell’album. Il
disco, nel complesso assai vivace e divertente, palesa però alcune
ingenuità dovute all’inesperienza.
Il
timbro particolare di Bryan, la cui voce richiama alla mente
un’improbabile connubio fra Roy Orbison e Morrissey, eccede spesso nel
vibrato, ostentato in modo esagerato anche quando il mood delle canzoni
non lo richiederebbe. King Leg, poi, si gioca le carte migliori con
un’incredibile estensione e un’ottima gestione anche delle parti
baritonali. Tuttavia, questo continuo saliscendi, testimonianza di
un’ugola di tutto rispetto, nasconde una certa debolezza interpretativa,
dando vita a una prova vocale di potenza, ma sostanzialmente monocorde.
Le
canzoni, poi, non sono tutte imprescindibili. Se da un lato, infatti, è
evidente che il ragazzo possiede un’ottima conoscenza delle proprie
fonti d’ispirazione, è altrettanto evidente un certo disordine
nell’esposizione. Si passa, infatti, dal jingle jangle byrdsiano
dell’iniziale Great Outdoors, agli echi smithsiani di Wanted e A Dream That Never Ends, fino al power pop a la Big Star di Seeing You Tonight e agli echi di un lontano passato, evocati nella cover, datata 1962, di Running Scared di Roy Orbison, frustrata da un’enfasi francamente stucchevole.
Se qualche ottimo episodio non manca (Comfay Chair è una ballata sentita e struggente, Walking Again
è un tuffo a capofitto negli anni ’50 e coglie l’essenza del country
rock più basico), il disco palesa uno stile ancora non ben definito.
Insomma,
King Leg gioca troppo spesso a fare il novello Roy Orbison, cosa che
non sempre gli riesce, e tenta di amalgamare stili musicali storicamente
lontani, senza avere ancora quella visione matura che gli consentirebbe
di armonizzare le sue estrose, ma non sempre centrate, intuizioni. Come
si diceva all’inizio, il talento però non gli manca, e se riuscirà a
mettere il proprio giovanile ardore al servizio dell’arte, sarà in grado
di fare grandi cose. Solo il tempo ce lo dirà.
VOTO: 6,5
Blackswan, martedì 13/03/2018
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