Due album ai vertici delle classifiche di genere statunitense (Same Trailer Different Park del 2013 e Pegeant Material
del 2015), un Grammy e due CMA Award vinti, un disco di canzoni
natalizie, pubblicazione che negli States è considerata una sorta di
certificazione di popolarità (A Very Kacey Christmas del 2016),
varie comparsate televisive e il palco condiviso con artisti del
calibro di George Strait, John Mayer, Loretta Lynn, and more, sono il
biglietto da visita della ventinovenne Kacey Musgraves. La quale, fin
dagli esordi è stata inserita nel movimento denominato outlaw country,
soprattutto per liriche impegnate e disinibite, con cui di volta in
volta la songwriter texana ha trattato temi quali l’omosessualità, il
sesso, le droghe e la religione.
Un
paio di duetti con l’amato Willie Nelson hanno definitivamente sancito
l’appartenenza al genere, anche se poi, a ben vedere, la scrittura della
Musgraves ha spesso sconfinato nella musica pop più radiofonica. Ed è
proprio il pop a segnare definitivamente i contenuti di Golden Hour,
terzo album della giovane e fortunata cantante: una svolta clamorosa e
decisiva, che relega le sonorità country nell’utilizzo di qualche
strumento tradizionale (banjo, lap steel, etc) e poco altro.
Un
cambio di rotta deciso, che ha prodotto immediatamente i suoi frutti,
visto che l’album in pochi giorni è schizzato ai verti delle classifiche
americane (quarta piazza di Billboard 200 nel momento in cui sto
scrivendo) e ha ricevuto critiche lusinghiere sia dalla stampa americana
che da quella inglese (paese in cui la Musgraves conosce un importante
seguito).
Si
astengano, quindi, gli appassionati del roots americano: in queste
tredici canzoni non ne troverebbero traccia e resterebbero parecchio
delusi. Chi, invece, ama il pop di classe, mainstream e furbetto, ma
niente affatto banale, avrà più di un motivo per essere soddisfatto dal
disco. La Musgraves, infatti, dimostra di avere un’ottima penna,
sfornando un filotto di canzoni di facilissima presa, dal sapore
decisamente radiofonico, le cui irresistibili melodie trovano moduli
espressivi diversi in un quadro d’insieme che comunque risulta assai
omogeneo.
Kacey,
dunque, ha definito uno stile, una sorta di ibrido fra Katy Perry e Ann
Lee Woomack, continuando a scrivere i propri testi outlaw, senza però
servirsi di quelle componenti country che aveva segnato le precedenti
uscite. Golden Hour palesa qualche difetto, certo: un paio di pezzi
suonano come banali riempitivi (Velvet Elvis e Wonder Woman)
e l’eccessiva lunghezza del disco (13 canzoni per 46 minuti) annacqua
un poco la forza di un impianto melodico confezionato ad arte.
Sono tante, infatti, le canzoni che, nella loro schiettezza pop, risultano godibilissime: Space Cowboy,
autentico tormentone da quasi un milione di visualizzazioni su Youtube,
la riuscita commistione fra elettronica e strumenti tradizionali di Oh, What A World, la primaverile freschezza di Lonely Weekend, gli accenti malinconici del folk pop dell’iniziale Slow Burn, la diafana filigrana soul della title track, le delicatezze pianistiche di Mother e Rainbow e la dance retrò di High Horse,
fulminante riempipista pubblicato come terzo singolo. Un disco
assolutamente riuscito, tanto che gli autorevoli Guardian e The
Indipendent hanno entrambi premiato la Musgraves con cinque scintillanti
stellette. Un plauso forse eccessivo, ma un giudizio che comunque
testimonia l’ottimo lavoro fatto dalla texana anche lontano dai consueti
registri. Leggerezza pop a tutto tondo da ascoltare senza preconcetti.
VOTO: 7
Blackswan, giovedì 12/04/2018
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