Citazionisti,
passatisti, totalmente privi di quell’hype malinconico e stiloso che
piace tanto ai recensori indie, semplici, diretti, lontani anni luce da
ogni tipo di tentazione elettronica o intenti sperimentali, e pure
banali, perché no. Questi sono gli Spiders, band svedese, originaria di
Goteborg, che ritorna sulle scene con un nuovo album dopo Shake
Electric, pubblicato nel 2014.Li
abbiamo presentati con tutti quegli evidenti difetti che di sicuro
verrebbero messi all’indice da chi è abituato a definire questa musica
scontata e puerile. Ben vengano, allora, le eventuali critiche e,
francamente, chi se ne fotte. Per ascoltare (e recensire) un disco degli
Spiders non sono necessari complicati esercizi onanistici: bisogna solo
avere voglia di divertirsi, di ballare e di sudare finché si ha birra
in corpo (e intendo letteralmente).
Perché
queste canzoni, risapute e derivative quanto vuoi, hanno un tiro e una
freschezza che stende. Accendono la festa e ti strattonano a forza dal
tuo angolino, dove sei seduto a sorseggiare chinotto da una cannuccia,
spingendoti verso l’occhio del ciclone pogo e costringendoti a
scatenarti come un derviscio in preda ai fumi alcolici.
In
termini di muscoli, infatti, Killer Machine raccoglie tutto lo scibile
umano: hard rock anni ’70, chitarroni nineties, anfetaminico garage
punk, e poi Joan Jett, Motorhead, Guano Apes, T-Rex e un centinaio di
altre band, che messe tutte in fila esaurirebbero lo spazio destinato
all’articolo. La scaletta, però, è confezionata con la carta da pacco
glitterata e variopinta di melodie uncinanti, e infiocchettata da
un’estetica sexy glam molto eccitante. A condurre le danze, la bella
voce di Anne Sofie Hoyles e la chitarra del fratello John, che dispensa
assoli fulminanti e riff assassini, sostenuto dalla martellante sezione
ritmica composta da Olle Griphammar (basso) e Ricard Harryson
(batteria).
Si parte a cento all’ora con Shock And Awe,
garage punk rapido come un serramanico, che stupisce per la capacità di
bilanciare in tre minuti graffi ripetuti e melodia di facilissima
presa. Risultato che si ripete nella fantastica Dead Or Alive,
singolo dal ritornello contagioso ai limiti dell’epidemia. Non c’è un
filler in scaletta e tutto scorre rapido e divertentissimo sino alla
fine, tra punk rock irretito da ritmiche dance (Like A Wild Child e Higher Spirits richiamano alla mente la sensualità dei Blondie), ballate seventies attraversate da ruvida malinconia (Don’t Need You) e derapate anfetaminiche benedette da San Lemmy, che guarda di lassù compiaciuto.
Tutto
prevedibile? Certo. La musica, però, è fatta di grandi canzoni e qui ce
ne sono tante, tutte direi. Canzoni che guardano al passato, ma hanno i
piedi ben piantati nel presente, e che non ci chiedono nulla in cambio,
se non la voglia di imbracciare una air guitar, cantare a squarciagola e
abbandonarci al sacro rito dell’headbagging. Alla fine, il senso del
rock’n’roll non è proprio questo?
VOTO: 8
Blackswan, venerdì 20/04/2018
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