Scordatevi gli Arctic Monkeys, perché la band che conoscevate non esiste più. Whatever People Say I Am, That's What I'm Not
 (2006) è un disco che appartiene a un’epoca preistorica, che nulla ha 
più a che vedere con questo nuovo corso intrapreso da Alex Turner e 
soci; ma mettete una bella croce anche sul più recente AM (2013), che già non era molto in linea con i primi lavori del gruppo.
Da
 quel penultimo disco sono passati solo cinque anni, ma la distanza si è
 fatta siderale. In AM, l’urgenza quasi punk, che ci faceva zompare come
 indemoniati mentre pulsava rapida I Bet You Look Good On The Dancefloor,
 era andata (quasi) perduta per sempre.  Le canzoni quel disco 
denotavano un’architettura sonora più riflessiva, che continuava a 
mantenere un appeal giovanilistico e modaiolo, ma che si faceva al 
contempo più variegata, ricca di citazioni e con sfiziosi ammiccamenti a
 certa musica nera, hip hop e soul in primis.
Se, però, voi, fans della prima ora, consideravate AM l’album del tradimento definitivo, Tranquillity Base Hotel & Casino
 suonerà alle vostre orecchie come una sorta di vilipendio di cadavere. 
Quindi, scappate a gambe levate. Perché, al sesto album in studio, gli 
Arctic Monkeys hanno, infatti, plasmato una scaletta depurata da ogni 
possibile scoria del passato (visto il nuovo corso, la parola scoria è 
quasi d’obbligo), tanto che per approcciarsi all’ascolto e uscirne 
soddisfatti (sempre ammesso che sia possibile), è di gran lunga 
preferibile non essere fan della band.
Tranquillity
 Base Hotel & Casino è un disco figlio di cinque anni di riflessione
 e della nuova passione di Turner per il piano, un lavoro meditato, 
voluttuoso ma scorbutico, poco incline ad accondiscendere ascolti 
superficiali, dal momento che l’immediatezza, ormai, non abita più qui. 
Le chitarre ci sono ancora, certo, ma sono solo sfumature in una tela di
 colori pastello, tratteggiati da arrangiamenti densi, che vestono di 
vintage ed elettronica melodie sinuose e stravaganti, citando i Beatles 
e, perché no, Bowie, e ammiccando a sonorità, tutto sommato, più vicine 
ai Last Shadow Puppets.
Questo
 disco, probabilmente, non piacerà, né ai fan della prima ora né agli 
ascoltatori occasionali, che cercano nella musica emozioni subitanee e 
quelle due o tre canzoni che spaccano e fanno la differenza anche in 
termini di orecchiabilità. E ciò nonostante la miglior prova vocale di 
sempre di Turner, il coraggio della sperimentazione e un fascino elusivo
 di canzoni quasi inafferrabili.
Un
 disco complesso, dunque, che ha sancito definitivamente la metamorfosi 
di una ex internet band di ragazzini, che cavalcò meravigliosamente 
l’onda lunga del post punk revival e che ora, invece, ha iniziato a 
suonare in un’altra galassia. Per capire se è un bene o un male, bisogna
 solo ascoltare: ci vuole tempo, ma potrebbe essere una sorpresa.
VOTO: 7,5
Blackswan, sabato 19/05/2018

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