Ci
 sono band a cui basta un disco, magari anche un singolo, per scalare le
 classifiche e diventare famose; e altre, invece, che si dannano l’anima
 per anni senza cavare un ragno dal buco. E’ quello che, più o meno, è 
successo agli Old Crow Medicine Show, band oggi di stanza a Nashville, 
formatasi sul finire degli anni ’90 a Harrisonburg, Virginia.
Una
 gavetta dura, a sputar sangue in piccolissimi locali di periferia o a 
raccogliere consensi agli angoli delle strade (il nome del gruppo in tal
 senso è abbastanza esplicito). Ed è proprio durante uno di questi 
concerti improvvisati, davanti a una farmacia di Boone, un paesone della
 North Carolina, che gli OCMS vengono notati da Doc Watson, uno dei 
padri dell’american roots.
Un
 bel intuito quello avuto da Watson che, dopo averli ascoltati, se li 
porta a suonare al Merlefest, festival di musica tradizionale che si 
svolge ogni anno in quel di Wilkesboro. Da qui, dal cuore dell’America 
rurale, la band capitanata dal cantante e violinista Ketch Secor ha 
iniziato un’ascesa di consensi e successo che li ha portati a suonare al
 Grand Ole Opry, programma radiofonico in onda ininterrottamente dal 
1925 e che è considerato il massimo punto di arrivo per la consacrazione
 di un musicista country.
Ora,
 gli Old Crow Medicine Show li conoscono tutti, sono uno dei gruppi 
leader di quel movimento chiamato progressive bluegrass (e di cui 
rappresentano la falange più ortodossa), vendono milioni di dischi (un 
Grammy Award vinto con il loro penultimo Remedy) e si piazzano sempre ai
 primi posti delle posti delle classifiche di genere. Sei dischi 
all’attivo (senza contare i primissimi lavori, praticamente introvabili)
 una manciata di Ep e una fama ormai consolidatissima di eccezionale 
live band, rappresentano il pedigree di una delle realtà più stimolanti 
dell’intera scena country statunitense. Anche perché questi sette 
ragazzi non si limitano a rinverdire i fasti della tradizione, ma amano 
plasmare il suono roots con un approccio incredibilmente punk rock: 
alternative country, quindi, suonato in acustico, ma con la potenza e 
l’energia di una band che suona elettrico.
Volunteer
 è il secondo disco sotto l’egida Columbia, major con la quale gli OCMS 
avevano già pubblicato, lo scorso anno, lo splendido tributo a Dylan (50
 Years Of Blonde On Blonde). Ed è anche il primo disco che vede la 
presenza di Dave Cobb in produzione, dopo che il precedente Remedy 
(2014) si era valso dei servigi del britannico Ted Hutt (Gaslight 
Anthem, Flogging Molly, etc).
Cobb,
 dal canto suo, non ha aggiunto molto a un repertorio già ben 
consolidato, limitandosi a rendere ancora più potente il suono e ad 
arrotondare qualche spigolo. Insomma, ha assecondato le doti principali 
della band, mettendo in luce i gioielli di famiglia, e cioè, 
immediatezza, potenza, gran ritmo e strumenti sbrigliati usque ad fine, 
fiore all’occhiello di quello che potremmo definire, insieme a Remedy, 
il miglior capitolo della discografia degli OCMS.
Canzoni
 che pescano dal bluegrass, che citano Dylan (la voce di Secor, senza 
possederne la fascinosa asprezza, ricorda da vicino quella del 
menestrello di Duluth), che sfociano in up tempo travolgenti (per chi 
non mastica la materia, rimanderei alle gighe dei Pogues, giusto per 
farsi un’idea) o si illanguidiscono attraverso ballate pronunciate con 
accenti decisamente bluesy.
Un
 disco che si ascolta tutto in un fiato, e che trasmette la sanguigna 
passionalità di chi ha costruito la propria carriera trasformando ogni 
concerto in un pogo travolgente (ascoltate le accelerazioni di Flicker & Shine,
 indemoniato compendio di tecnica e ultra velocità). Questa volta, però,
 sono i brani più lenti a prendersi la scena, visto che i nostri eroi 
inanellano un filotto di ballate da urlo (Child Of The Mississippi, Old Hickory, Homecoming Party, Whirlwind) levigate dalla mano sicura di Cobb e dalla voce appassionata di un sempre più convincente Secor.
Nella
 speranza che prima o poi facciano un salto dalle nostre parti, non 
perdetevi questo gioiellino: loro sono probabilmente la migliore roots 
band in circolazione.
VOTO: 8
Blackswaan, giovedì 17/05/2018 

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