Sono trascorsi ben sei anni da The Wilderness,
quarto volume della Nomad Series, uscito nel 2012, senza che si avessero
notizie dei Cowboy Junkies. Un lasso di tempo considerevole, soprattutto per
gli attuali standard dell’industria discografica, ma sei anni, a dire il vero,
spesi benissimo (suonando molto dal vivo, registrando talvolta in studio),
visto che il risultato è un disco splendido, uno dei migliori nella carriera
della band canadese.
Se l’esperienza con la Nomad Series aveva
condotto i Cowboy Junkies su strade diverse, decisamente più sperimentali, At
The Reckoning segna, invece, una sorta di ritorno al passato, a un suono che
potremmo definire come classico, e a cui la band ha lavorato con lentezza,
limando note e arrangiamenti, e prendendosi, come dicevamo, tutto il tempo
necessario perché il risultato fosse quello voluto.
Non aspettatevi però un disco che suoni esattamente
come Trinity Sessions (1988) e The Caution Horses (1990), i due
dischi più rappresentativi dei Cowboy Junkies: pur mantenendo inalterato il
proprio marchio di fabbrica, At The Reckoning è, infatti, connotato,
almeno a tratti, da una sferzante elettricità, figlia del lungo periodo passato
in tour dalla band e da una dimensione live che, durante la fase di scrittura,
era divenuta quotidiana e predominante.
Sorprenderanno, quindi, e in positivo peraltro, brani
come Sing Me A Song e Missing Children, due canzoni bellissime,
tra le migliori in scaletta, che hanno un’anima molto rock e che suonano
decisamente rumorose rispetto ai consueti standard. Sono, peraltro, anche i due
episodi più immediati di un disco che, essendo stato pensato a lungo, non è
facilmente assimilabile dopo pochi ascolti, ma ha bisogno di tempo per poter
essere colto in tutte le sue sfumature.
Dategli, quindi, il tempo che merita, perché la
bellezza lentamente arriverà alle vostre orecchie e al vostro cuore: in primis,
grazie la voce di Margo Timmins, a cui il tempo non ha tolto un briciolo del
suo immenso fascino, e poi, grazie alla scrittura del fratello Michael, la cui
penna, icastica ma affabulante, regala momenti di autentica perfezione con il blues
disciolto in liquido amniotico della riverberata When We Arrive, negli
echi velvettiani della sublime The Things we Do To Each Others o nei
languori nostalgici di Shining Teeth, in cui Margo regala una prova
vocale da pelle d’oca.
Non sono davvero molte le band che dopo trent’anni di
carriera riescono a mantenere dritta la barra del timone e ripresentarsi sulle
scene con un disco di tale spessore emotivo e compositivo. Un disco che, come
al solito, si tiene lontano dai compromessi, a partire dalla copertina, forse
la più bella vista nel 2018, capace al contempo di inquietare e affascinare.
Esattamente come la musica che contiene.
VOTO: 8
Blackswan, venerdì 20/07/2018
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