I
Sons Of Bill, gruppo originario di Charlottesville, Virginia, sono un
quintetto in circolazione dal 2006, che ha all’attivo, contando
quest’ultimo Oh God Ma’am, già cinque album. La peculiarità del
nome deriva dal fatto che la band è composta da tre fratelli (Sam,
James e Abe, a cui si aggiungono Seth Green al basso e Todd Wellons alla
batteria) che hanno voluto ispirare il loro progetto musicale al padre,
Bill Wilson, professore emerito di filosofia teologica e letteratura
(l’uomo è uno dei massimi studiosi statunitensi di William Faulkner)
presso l’Università della Virginia.
E che a casa Wilson si respiri un bel po’ di cultura si può desumere dai testi delle canzoni di Oh God Ma’am,
che appaiono davvero di un livello superiore alla media. Così come,
superiori alla media, sono quasi tutte le dieci canzoni contenute nella
scaletta di un album che, rispetto ai precedenti lavori, segna un
decisivo cambio di rotta. Il precedente e bellissimo Love And Logic
(2014), infatti, si muoveva in territori di Americana abbastanza
riconoscibili, apportando però al genere anche qualche inusuale
innovazione.
Se
infatti la strumentazione utilizzata per la registrazione dei brani
pescava a piene mani dalla tradizione a stelle e strisce (pedal steel,
banjo, dobro), i Sons Of Bill puntavano a soluzioni originali, facendo
fluttuare suoni e melodie verso il blu acceso di certi cieli americani
che paiono infiniti. Così, non era azzardato parlare di Space Americana,
soprattutto riguardo a quegli episodi che erano marcati da influenze
pinkfloydiane o che imboccavano la strada di un etereo lirismo.
In Oh God Ma’am, i riferimenti alla band inglese tratteggiano solo la morbidissima Green To Blue, mentre il lirismo di cui sopra avviluppa la malinconica Sweeter, Sadder, Fadden Away,
ninnananna per spazi aperti, che apre il disco evocando, in modo
ambiguo, una tormentata storia d’amore, forse, finita in tragedia. Sono
due episodi, però, che pur non stonando rispetto all’economia del disco,
si discostano dal nucleo della scaletta che suona, realmente, diverso.
Se
per il precedente, i riferimenti più evidenti erano gli anni ’70, in
questo nuovo full lenght i Sons Of Bill virano inaspettatamente verso un
pop rock clamorosamente eighteis. Ne poteva venir fuori una boiata
pazzesca, e invece no.
Perché
i cinque ragazzi della Virginia sanno scrivere canzoni ricche di
emozioni, che restano tali qualunque vestito indossino. Chitarre solari,
melodie uncinanti, un mood di fondo trasognato e un’Americana diluita
con un pizzico di elettronica, tenuta però, sotto controllo, sono gli
elementi principali di questo nuovo lavoro. Che gioca con gli anni ’80,
in un caso maldestramente (la pessima Old & Gray sembra uno scarto da karaoke), in altri, con lucidità e freschezza invidiabili (Firebird ’85, Believer/Pretender, Where We Stand),
citando le grandi icone del decennio (lo Springsteen di Born In The
Usa, i Cars di Hearbeat City, Echo And The Bunnymen, etc.)
Probabilmente,
gli amanti dell’Americana o semplicemente coloro che avevano apprezzato
i precedenti lavori dei Sons Of Bill, al primo ascolto, storceranno il
naso. Con un po' di pazienza, però, e molta onestà intellettuale, una
volta colta la visione d’insieme (rinnovarsi nel suono, mantenendo alta
la qualità delle composizioni), si accorgeranno di essere di fronte a un
disco non solo diverso, ma ricco di belle canzoni e di intuizioni.
Promossi.
VOTO: 7
Blackswa, lunedì 16/07/2018
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