Di
consueto, con l’inizio del nuovo anno, arrivano le classifiche delle cose
migliori ascoltate nel precedente. Nessuna pretesa di esaustività, ovviamente,
ma solo il meglio dei dischi raccontati sul Killer. Come sempre, so che non
tutti saranno d’accordo con queste scelte; ma, come sempre, sono convinto di
aver costruito la classifica con il massimo della obbiettività conciliata,
ovviamente, alla parzialità dei miei gusti personali. Gli album vanno dalla
decima piazza alla prima e l’indicazione è seguita da un breve stralcio della
recensione che ne feci.
10
MYLES KENNEDY – YEAR OF THE TIGER
“Difficile dire se un
album del genere potrà far breccia nel cuore dei tanti appassionati rocker che
da tempo seguono le gesta del cantante; di sicuro, Year Of The Tiger, a
prescindere dai suoi intenti catartici, apre a Kennedy le porte di una carriera
parallela che, visto il risultato di questo inaspettato e tardivo esordio,
potrà essere una carta vincete da giocare, quando l’ugola, oggi più
scintillante che mai, comincerà a perdere colpi.”
9
KACEY MUSGRAVES – GOLDEN HOUR
“Sono tante, infatti,
le canzoni che, nella loro schiettezza pop, risultano godibilissime: Space
Cowboy, autentico tormentone da quasi un milione di visualizzazioni su
Youtube, la riuscita commistione fra elettronica e strumenti tradizionali di Oh,
What A World, la primaverile freschezza di Lonely Weekend, gli
accenti malinconici del folk pop dell’iniziale Slow Burn, la diafana
filigrana soul della title track, le delicatezze pianistiche di Mother
e Rainbow e la dance retrò di High Horse, fulminante riempipista
pubblicato come terzo singolo. Un disco assolutamente riuscito, tanto che gli
autorevoli Guardian e The Indipendent hanno entrambi premiato la Musgraves con
cinque scintillanti stellette. Un plauso forse eccessivo, ma un giudizio che
comunque testimonia l’ottimo lavoro fatto dalla texana anche lontano dai
consueti registri. Leggerezza pop a tutto tondo da ascoltare senza preconcetti.”
8
LARKIN POE – VENOM & FAITH
“Le due
sorelle Lovell, infatti, camminano in bilico fra tradizione e innovazione,
plasmando le classiche dodici battute con grande modernità e azzardi stilistici
che suonano decisamente anomali rispetto alla consueta visione del genere.
Insomma, da un lato l’attenzione filologica alle radici è rispettata,
dall’altro, però, c’è il tentativo di plasmare la materia per renderla più
attuale, facendo ricorso ad un pizzico di elettronica e a ritmiche, talvolta,
anche molto vicine a quelle dell’hip hop.
Le Larkin
Poe, mi permetto di azzardare il paragone, fanno esattamente ciò che anni fa
fecero i White Stripes di Jack White: modernizzano un suono antico, avvicinando
la grande tradizione blues alle orecchie dei più giovani. Ciò non significa
stravolgere tutto, e ci mancherebbe, ma aggiungere nuove spezie per ravvivare
un sapore già noto”
7 LORI MCKENNA – THE TREE
“Riflette
sulla vita, la McKenna, sulle quelle esperienze affettive che potrebbe
devastarti, ma che alla fine ti rendono più forte e coraggiosa (You Can’t
Break A Woman), sugli impeti della gioventù, su quell’urgenza e
quell’impazienza che spinge i giovani a volere tutto e subito (Young And
Angry Again, con un suono di chitarra che rievoca Emmylou Harris e la sua
Hot Band) e sulla perdita dell’innocenza e la consapevolezza dell’età adulta
(in The Lot Behind St Mary’s, Lori canta di: the love we made before
our teenage dreams were buried). Non c’è un solo riempitivo in The Tree, né
un momento di stanca, a dimostrazione dello stato di forma di un’artista che
continua a sfornare dischi indispensabili. Tanto che, a voler usare l’iperbole,
basterebbero i due minuti di struggente perfezione di You Won’t Even Know
I’m Gone a farci gridare al miracolo e a renderci felici di aver comprato
questo disco.”
6 CLUTCH – BOOK OF
BAD DECISIONS
“Questa
miscela esplosiva di fango, cemento armato, sudore, metanfetamine, hard rock,
blues, stoner e grunge non ha perso negli anni un briciolo del suo fascino
virile e del suo impeto guerrigliero, giungendo di nuovo alle orecchie degli
ascoltatori con la sua implacabile ferocia. Quindici canzoni che soffiano
rabbia e adrenalina come benzina su fuoco, per una scaletta che tracima
cattiveria e non risparmia colpi bassi: un assalto elettrico corroborato dalla
sezione ritmica martellante, da riff urticanti e solfurei, da assoli brevi e
letali come una raffica di mitra, e dal ghigno malefico della voce assassina di
Neil Fallon.”
5 ALICE IN
CHAINS – RAINIER FOG
“Il suono è
sempre più cupo, ossianico e claustrofobico, le canzoni sono mediamente più
lunghe che in passato, e se il marchio di fabbrica rappresentato dagli intrecci
vocali e dai riff icastici e dagli assoli vischiosi della chitarra di Cantrell
continua a segnare uno stile inimitabile, i richiami ai fasti del grunge
trovano una declinazione ancora più heavy.
Non un disco
facile, anzi: le dieci canzoni che compongono la scaletta dell’album (per
cinquantaquattro minuti di durata) possiedono un tasso di indigeribilità
altissimo e impongono un’attenzione e una predisposizione all’ascolto da
veterani per riuscire a superare la prima impressione di trovarsi di fronte a
un’opera monolitica.”
4 JASON ISBELL & THE 400 UNIT –
LIVE FROM THE RYMAN
“Grazie a
una band che si mette al servizio delle canzoni, con una performance low
profile ma efficacissima, e al violino e la voce di Amanda Shires, la cui
dolcezza fa da contrappunto alla ruvida schiettezza del marito, Isbell inanella
un filotto di canzoni che lasciano senza fiato, sia quando abbraccia la
chitarra elettrica graffiando con il suo rock aspro e quadrato (il ringhio di Cumberland
Gap, la tirata grezza e basilare di Super 8), sia quando sfodera
gioiellini di melodia da cantare a squarciagola come The Life You Chose
o Last Of My Kind, o si raccoglie nell’intimità asciutta di If We Were
Vanpires.
Se esistesse
un vademecum per la pubblicazione del perfetto disco live, dovrebbe essere
improntato a questo Live From The Ryman: un’ora di musica col cuore in
mano, in cui la vita supera l’arte, per intensità ed emozioni. Imperdibile.”
3 DANIEL BLUMBERG – MINUS
“In Minus
c’è, come si diceva, una predisposizione all’improvvisazione, che viene
sublimata nei dodici minuti e mezzo di Madder, capolavoro deviato e
sperimentale in cui Blumberg trita e rimastica i Talk Talk di Laughing Stock,
Vic Chesnutt, Robert Wyatt e Tim Buckley, spingendo la visione verso una chiosa
rumorosa, schizofrenica e free.
Un album che
rapisce nell’andamento apparentemente ovvio di Stacked, ballata alla
Neil Young, in cui al falsetto di Blumberg fa da contrappunto lo sfarfallio di
un violino nevrotico e disturbante, o che intrappola nel caracollante loop
rotatorio e nei ritmi spezzati dell’allucinata Permanent, canzone che vira,
poi, nell’intuizione di un ritornello di bellezza improvvisa e struggente.
Se è vero
che Minus non è un disco per tutti i gusti, è altrettanto vero che questo
straordinario impianto di melodia, allucinazioni, fremente tensione e fragilità
emotiva potrà diventare per molti una sorta di istant classic, da consumare
senza soluzione di continuità per molto, molto tempo. Come una bella donna il
cui fascino complicato e respingente vi fa perdere letteralmente la testa, così
Minus sa ammaliare con trame complesse, tortuose deviazioni, particolari
apparentemente astrusi e ombrosi ristagni. Tanto che ci sentiamo di
suggerirvelo come uno dei dischi più emozionanti di questo 2018.”
2 CLOUD NOTHINGS – LAST BUILDING
BURNING
“Se Dissolution
rappresenta una possibile nuova traiettoria per il futuro dei Cloud Nothings,
il resto del disco eleva al massimo possibile gli standard già alti a cui il
combo americano ci ha abituati. Lo fa fin da subito, con l’opener On An Edge,
sconquasso post hard core, che colpisce nel segno come un uppercut sullo
zigomo, aumentando notevolmente una potenza di tiro già considerevole.
Sanno fare
malissimo, i Cloud Nothings, ma non dimenticano mai di giocarsi anche la carta
vincente di un paio di brani (Leave Him Now e Another Way Of Life),
in cui chiamano all’appello quelle accattivanti melodie lo-fi, che da sempre
sono il piatto forte della casa. Due ottime canzoni, che da sole, però, non
sposterebbero il giudizio su un disco che possiede, invece, le stigmate
dell’alternative instant classic.
In Shame, infatti, riaccende l’epos della
bellissima I’m Not A Part Of Me (da Here And Nowhere Else),
gonfiando di lirismo sturm und drang tre minuti di canzone che sfidano con lo
sguardo di fuoco il cupo livore del cielo in tempesta. Stupisce, poi, la
ruggine nostalgica che ossida il riff post punk di Offer An End, e
straziano il cuore le unghiate malinconiche sul muro elettrico di So Right
So Clean, ballata che destruttura con ruvide distorsioni una melodia
intrisa di rassegnata disperazione.
Se ancora
c’è qualcuno che pensa ai Cloud Nothings come a una band di cazzoni alle prese
con del pop punk tardo adolescenziale, dopo aver ascoltato Last Building
Burning, avrà modo di ricredersi definitivamente: il trio di Cleveland
esibisce una qualità compositiva da fuoriclasse e firma quello che può essere
senz’altro definito il proprio capolavoro. Un disco che ferisce i padiglioni
auricolari con scariche elettriche di rinnovata ferocia e guarda a un possibile
nuovo futuro con baldanzosa consapevolezza. Indispensabile.”
1 FANTASTIC NEGRITO – PLEASE DON’T
BE DEAD
“Le undici
canzoni in scaletta, infatti, sono uno zibaldone di citazioni, un patchwork
arditissimo di deja vù; eppure, nonostante non ci sia nulla di veramente nuovo,
la miscela è talmente originale, colorata e fantasiosa da apparire, anche ad
orecchie allenate, qualcosa di realmente inaudito.
Xavier,
infatti, nasconde i punti di riferimento, crea alchimie fra suoni lontani, trae
in inganno con il trompe l’oil di brani che partono con una struttura e
finiscono proprio là, ove era impensato finissero, suggerisce coordinate e poi,
prendendo alla sprovvista l’ascoltatore, cambia improvvisamente rotta. Mischia
le carte, perché le canzoni suonino al contempo famigliari e spiazzanti, in un
unicum che è tutto fuorché prevedibile o lineare.
La
deflagrazione di Plastic Hamburgers, con cui si apre il disco, è
innescata dalla miscela incendiaria fra un riff zeppeliniano, funky e moderno
spiritual (qualcuno ha detto Algiers?): è un diretto sullo zigomo, un brano che
fa godere rockettari incalliti e saltare in piedi gli amanti della black music
per un compendio di tre minuti e mezzo che si mangia in un boccone l’intera
discografia di Lenny Kravitz.
Siamo solo
all’inizio, però, di un disco in cui ogni canzone regala un’intuizione che
definire felice è essere riduttivi. Bad Guy Necessity è un funky
eviscerato dai bisturi di un ritornello stonesiano al midollo, A Letter To
Fear ricicla la progressione discendente di Dazed And Confused degli
Zep mettendola al servizio di quella che in realtà si rivela un’intensa ballata
gospel.
Non c’è
tempo per stupirsi, né un attimo di pausa, perché tutto fluisce strano e
inatteso: la danza sciamanica di A Boy Named Andrew che viene
accerchiata da una chitarra acida di morsura, il nu soul stiloso di Trasgender
Biscuits, che sembra una bonus track da Fly Or Die dei Nerd, il
lamento spirituals di The Suit That Won’t Come Off, attraversato da una
chitarra affilatissima e che si scioglie in un’accorata melodia soul, o
l’inaspettato tributo alla disco music anni ’70 contenuto nella strabiliante The
Duffler, forse il miglior episodio del lotto.
E si
potrebbe andare avanti così a raccontare ogni singolo brano di un lavoro che
non presenta la benché minima ombra di filler. Se, infatti, solo un decimo dei
dischi ascoltati quest’anno contenesse la metà delle idee e delle intuizioni
che animano Please Don’t Be Dead, sarebbe, per noi appassionati, come
vivere nel paese dei balocchi. Indispensabile e bellissimo.”
Blackswan, mercoledì 02/01/2019
1 commento:
tutti e dieci questi dischi mi danno profondo fastidio
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