Tutti
coloro che amano il folk di nobile retaggio o che sono cresciuti coi
dischi di quel cantautorato femminile che ha scritto pagine
importantissime tra la fine degli anni ’60 e la prima metà dei
seventies, dovrebbe fare un monumento a Lucy Rose. La singer songwriter
inglese, giunta al quarto lavoro in studio, non solo, infatti, rilascia
il suo disco migliore, ma ribadisce nuovamente di potersi inserire con
naturalezza e merito nella scia tracciata da quelle (grandi) musiciste
che hanno scritto le pagine più significative del genere (Joni Mitchell
su tutte, ma un pensiero va anche a Carole King e, in qualche modo, a
Laura Nyro).
No Words Left
è un disco dal sapore antico, che guarda a quei gloriosi giorni con
rinnovata consapevolezza; ma è anche, e soprattutto, il disco concepito
da chi, quel suono, è in grado di rielaborarlo senza timore
reverenziale, ma con idee, intuizioni e un gusto personalissimo, figlie
di un’indiscutibile tecnica, di un songwriting senza sbavature e di una
voce capace di toccare le corde del cuore.
Una
scaletta breve (undici brani per 35 minuti di musica), omogenea e
coerente nell’andamento, senza tuttavia essere mai noiosa o ripetitiva,
attraversata da un intimismo traslucido e carico di suggestioni, in cui
un folk ossuto, e al contempo incredibilmente avvolgente, viene
incastonato in un suono semplice ed efficace, giocato su arrangiamenti
mirati, che utilizzano pochi elementi per riempire grandi spazi.
Un
arpeggio di chitarra, un’armonia che levita leggera dai tasti del
pianoforte, qualche impercettibile percussione, le carezze al velluto
degli archi, un riverbero elettrico, poche note di sax e, ad amalgamare
il tutto, la voce eterea della Rose, caratterizzata da un timbro
dolcemente malinconico, da una cangiante espressività e da un vibrato
che manda al tappeto.
No Words Left
è un piccolo fiume che scorre sinuoso e apparentemente tranquillo,
anche se poi a ogni singola ansa si scopre un’emozione capace di far
tremare i polsi delle vene: la melodia malinconica di Conversation, che si scioglie nell’abbraccio discreto degli archi, il tocco lieve, quasi jazzy, del pianoforte di Solo(w),
le cui progressioni armoniche evocano Laura Nyro ed evaporano in poche
note di sax, o il candore odoroso di primavera della deliziosa What does It Takes
sono solo alcuni degli high lights di un disco privo di momenti di
immediatezza e di possibili hit, e quindi, nonostante il nitore
compositivo e la seducente bellezza, destinato a rimanere patrimonio di
pochi fortunati ascoltatori.
VOTO: 7,5
Blackswan, mercoledì 03/04/2019
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