mercoledì 3 aprile 2019

LUCY ROSE - NO WORDS LEFT (Caroline International, 2019)

Tutti coloro che amano il folk di nobile retaggio o che sono cresciuti coi dischi di quel cantautorato femminile che ha scritto pagine importantissime tra la fine degli anni ’60 e la prima metà dei seventies, dovrebbe fare un monumento a Lucy Rose. La singer songwriter inglese, giunta al quarto lavoro in studio, non solo, infatti, rilascia il suo disco migliore, ma ribadisce nuovamente di potersi inserire con naturalezza e merito nella scia tracciata da quelle (grandi) musiciste che hanno scritto le pagine più significative del genere (Joni Mitchell su tutte, ma un pensiero va anche a Carole King e, in qualche modo, a Laura Nyro).
No Words Left è un disco dal sapore antico, che guarda a quei gloriosi giorni con rinnovata consapevolezza; ma è anche, e soprattutto, il disco concepito da chi, quel suono, è in grado di rielaborarlo senza timore reverenziale, ma con idee, intuizioni e un gusto personalissimo, figlie di un’indiscutibile tecnica, di un songwriting senza sbavature e di una voce capace di toccare le corde del cuore.
Una scaletta breve (undici brani per 35 minuti di musica), omogenea e coerente nell’andamento, senza tuttavia essere mai noiosa o ripetitiva, attraversata da un intimismo traslucido e carico di suggestioni, in cui un folk ossuto, e al contempo incredibilmente avvolgente, viene incastonato in un suono semplice ed efficace, giocato su arrangiamenti mirati, che utilizzano pochi elementi per riempire grandi spazi.
Un arpeggio di chitarra, un’armonia che levita leggera dai tasti del pianoforte, qualche impercettibile percussione, le carezze al velluto degli archi, un riverbero elettrico, poche note di sax e, ad amalgamare il tutto, la voce eterea della Rose, caratterizzata da un timbro dolcemente malinconico, da una cangiante espressività e da un vibrato che manda al tappeto.
No Words Left è un piccolo fiume che scorre sinuoso e apparentemente tranquillo, anche se poi a ogni singola ansa si scopre un’emozione capace di far tremare i polsi delle vene: la melodia malinconica di Conversation, che si scioglie nell’abbraccio discreto degli archi, il tocco lieve, quasi jazzy, del pianoforte di Solo(w), le cui progressioni armoniche evocano Laura Nyro ed evaporano in poche note di sax, o il candore odoroso di primavera della deliziosa What does It Takes sono solo alcuni degli high lights di un disco privo di momenti di immediatezza e di possibili hit, e quindi, nonostante il nitore compositivo e la seducente bellezza, destinato a rimanere patrimonio di pochi fortunati ascoltatori.

VOTO: 7,5





Blackswan, mercoledì 03/04/2019

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