sabato 29 giugno 2019

BAD BOOKS - III (Loma Vista, 2019)

Non è certo un nome noto alle nostre latitudini, quello dei Bad Books, nonostante la band sia però, in circolazione dal 2010, ed abbia alle spalle già due album molto interessanti, che negli States hanno avuto un discreto successo grazie a qualche singolo ben accolto anche a livello commerciale (Forrest Whitaker).
Loro arrivano da Atlanta e nascono dall’incontro fra il singer songwriter newyorkese Kevin Devine e dal cantante e chitarrista Andy Hull, noto ai più per essere il leader della band indie rock dei Manchester Orchestra. Dal sodalizio fra i due nasce questo progetto, che fonde con intelligenza le diverse anime della band, una che guarda al folk (Devine), l’altra invece indirizzata verso sonorità più moderne e contigue al rock (Hull).
Se nei dischi precedenti i due generi si compenetravano con efficacia, questo III è un lavoro decisamente più virato verso il folk. Chitarre acustiche, pianoforte, intrecci vocali e una spruzzatina di elettronica sono gli ingredienti del piatto servito dalla casa. Tanto che, almeno per questo nuovo lavoro, qualcuno ha paragonato il duo (in realtà c’è anche Robert Mc Dowell alla chitarra) addirittura a Simon e Garfunkel (ma vengono in mente anche nomi come Everly Brothers e Milk Carton Kids).
I brani che compongono la scaletta sono stati registrati dai tre all’insegna della semplicità e di una povertà di arrangiamenti a volte quasi francescana, dando vita a uno storytelling intimo e raccolto, che a qualcuno potrà ricordare le prime cose del duo, quando Devine e Hull condividevano il palcoscenico, con un tale affiatamento e sincronismo da lasciare senza fiato gli spettatori.
Ci sono, ovviamente, episodi che, pur nella loro ossatura folk, si vestono di cangianti colori indie, e colgono il segno con orecchiabili melodie che entrano in circolo alla velocità della luce. In tal senso, Myths Made Plain e I Love You, I’m Sorry, Please Help Me, Thank You evaporano nella leggerezza di una soleggiata mattina di primavera e uncinano le orecchie con una dolcezza che lascia storditi. I Bad Books sanno regalare molti momenti davvero intensi, anche quando camminano scalzi nella sussurrata melodia di The Neighborood, che evoca la cifra stilistica e la fragilità emotiva di Elliott Smith, o usano con sapienza un filo di elettronica nell’iniziale, struggente, Wheel Well.
III circoscrive uno spazio musicale intimo, colloquiale e stranamente rilassato, anche quando il peso degli argomenti trattati potrebbe offuscare la nitidezza del songwriting (in The Neighborood, ad esempio, si parla di omofobia, Myths Made Plain ha una connotazione politica e I Love You, I’m Sorry, Please Help Me, Thank You parla degli errori che commettono i genitori – entrambi, per inciso, sono diventati da poco padri).
Solo nel finale, con i nove minuti di Army, il disco si apre a un lungo flusso riflessivo sulla follia della guerra (è la storia di un soldato che si toglie la vita), in cui una malinconia velata di epica si dipana su un intreccio (e crescendo) di voci, chitarre e tastiere. Una canzone bellissima che suggella un album dai colori tenui e dalle dolci melodie, che piacerà molto a chi ama il folk nella sua accezione più indie.

VOTO: 7





Blackswan, sabato 29/06/2019

venerdì 28 giugno 2019

PREVIEW




Il tanto atteso ritorno dei Metronomy sta per arrivare. Oggi la band condivide il nuovo singolo e video per ‘Salted Caramel Ice Cream’ e annuncia l’uscita del nuovo album, e sesto della loro carriera, ‘Metronomy Forever’ il 13 settembre su Because Music/distribuzione Universal.
‘Metronomy Forever’ è il seguito di ‘Summer 08’ del 2016, e contiene 17 brani. La sua lunghezza nasce dal desiderio di creare uno spazio per respirare, senza riempirlo di hit come un bouquet di rose di una stazione di servizio – un modo moderno di ascoltare la musica. L’innata abilità dei Metronomy di mescolare funk con atmosfere da club e pop esoterico è inframmezzata con tracce più d’ambiente e elettronica melodica.
Il leader della band Joseph Mount con quest’album ha cercato di replicare la sensazione dell’ascolto di una radio, con canzoni di stili diversi, sempre in cambiamento, che aiutano a tirarti su di morale. Il trasferimento dal trambusto della sua ex casa parigina a una casa in cima a una collina in Inghilterra ha avuto un forte impatto, infondendo all'album un senso di tranquillità e una gioia calma che riflette la felicità relativa della sua esistenza. Altrettanto importante è stato il tempo passato a lavorare sull’ultimo album di Robyn, ‘Honey’.
‘Metronomy Forever’ rappresenta qualcosa che guarda contemporaneamente avanti e indietro, come Giano, qualcosa di fatale e eterno. Sei stato creato dalla polvere e polvere ritornerai, quel genere di cose.
"Quello che succede è che quando stai facendo musica e entri in un mondo in cui hai raggiunto una sorta di celebrità, non importa quanto grande o piccola, inizi a pensare a te stesso in termini di eredità e di cosa stai per lasciare", dice Mount. "E poi ti rendi conto che questa eredità si limita alle persone che sono interessate a te. E a me questo va bene. Minore è l’importanza che tu riponi nell’arte e più interessante può diventare... Sto facendo musica, faccio concerti, ho bisogno di nutrire i miei figli".
Joe Mount ha anche diretto il video di accompagnamento per ‘Salted Caramel Ice Cream’ dimostrando una crescente padronanza e uno stile visivo unico. Il video racconta la storia di due gelaterie in lotta: la tradizionale Oscar & Rodney, e Mike & Anna che è specializzata in gelato alla moda per la generazione di Instagram. Quando Oscar & Rodney si ritrovano in momenti difficili, sperimentano nuovi sapori per trovare una formula vincente e alla fine scoprono il gelato salato al caramello.
‘Metronomy Forever’ uscirà in digitale, CD e edizione limitata in doppio vinile nero.





Blackswan, venerdì 28/06/2019

giovedì 27 giugno 2019

WARRIOR SOUL - ROCK 'N' ROLL DISEASE (Livewire, 2019)

Sono quasi vent’anni che i Warrior Soul continuano a randellare senza pietà, guadagnandosi a ogni nuova uscita il titolo di band più rumorosa dell’anno. Capitanati dall’inossidabile Korey Clarke, uno per cui la vita si basa sui due massimi sistemi dell’universo maschile (figa e alcol), il combo di Detroit non molla il colpo e non smette di dispensare tonnellate di kilowatt capaci di offendere le orecchie anche dei rockettari più incalliti.
Un suono, quello del gruppo capitanato da Clarke, che si muove sul sottile confine che separa l’hard rock più cazzuto dal metal, il tutto dispensato con una scellerata attitudine punk. Se cercate fantasia e originalità, passate a un’altra recensione, perché i Warrior Soul non fanno per voi. Qui conta sono mulinare la durlindana senza fare sconti a nessuno. D’altra parte, basterebbe dare una rapida occhiata alle copertine di questo Rock’n’Roll Disease e del precedente Back On The Lash (2017) per capire di chi stiamo parlando: un dito medio e una pinta di birra raccontano meglio di qualsiasi parola quali sono i contenuti della musica dei Warrior Soul. Una band di cazzoni, a cui non frega una beata mazza di comporre canzoni memorabili, ma che se c’è da ubriacarsi e far casino sono i primi della fila.
Quindi, se il vostro mood esistenziale è in linea con questi concetti basilari e rozzi, Rock ’n’ Roll Disease è il disco che fa per voi. Abbiate cura, ovviamente, di alzare il volume dello stereo a palla e di non avere problemi di cervicale, perché qui l’headbagging compulsivo potrebbe farvi finire su un letto d’ospedale.
Solo otto canzoni per trentadue minuti di musica che suona come una fucilata a bruciapelo, una martellata sugli incisivi o una roncolata sul tendine d’Achille (scegliete voi il paragone più calzante). Se cercate della melodia, vi conviene scappare a gambe levate: qui l’unico “me lo dia” è quello che dite al negoziante di fiducia al momento dell’acquisto del cd. Il brano più orecchiabile del disco, infatti, è Going Mental, una tirata che potrebbe ricordare degli Ac/Dc innervositi da problemi di digestione. E ho detto tutto.
Le restanti sette canzoni schizzano velocissime, tra riff martellanti e assoli al fulmicotone, abrase dal timbro selvaggio di Korey Clarke, incrocio hardcore tra Lemmy e Brian Johnson, uno che ogni volta che apre bocca regala alla Treccani una nuova definizione di catrame.
Insomma, il contenuto artistico di Rock ‘n’ Roll Disease è quello di un panino con la salamella alla festa della birra in culo a qualche valle bergamasca. Ma se vi piacciono i sapori forti e la musica tutta decibel, sangue e sudore, non lasciatevelo scappare. Con buona pace della vostra cervicale.

VOTO: 6,5





Blackswan, giovedì 27/06/2019

mercoledì 26 giugno 2019

PREVIEW




L’ex frontman degli scozzesi Nazareth, il cantante Dan McCafferty, annuncia oggi il suo primo album solista in 30 anni. Last Testament esce il 18 ottobre su earMUSIC.
Sono pochissime le voci del classic rock riconoscibili dalle primissime note. Una di queste è quella dell’ex-frontman degli scozzesi Nazareth: il leggendario Dan McCafferty.
Dopo quasi cinquant’anni on the road con la band, Dan dovette ritirarsi per motivi di salute. Tuttavia, quello strumento unico, la sua voce, è ancora in grado di far saltare i tetti.
Dan ha lavorato con il compositore, tastierista e fisarmonicista ceco Karel Marik, autore delle musiche e produttore dell’album. Dan ha scritto i testi dei brani.
Registrato e mixato al Substation Studio di Rosyth in Scozia dall’ingegnere del suono Duncan Aiteken e masterizzato a Eike Freese ai Chamaleon Studios di Amburgo, Last Testament è un album unico che sorprenderà e allieterà i fan di tutto il mondo.





Blackswan, mercoledì 26/06/2019

martedì 25 giugno 2019

PETER FRAMPTON BAND - ALL BLUES (Universal MUsic, 2019)

I dischi belli che non ti aspetti sono quelli che danno più gusto. E non vi è dubbio che questo All Blues, ultima fatica a firma Peter Frampton, sia tanto bello quanto inaspettato. Certo, un tempo, il chitarrista inglese scrisse pagine importanti di storia con gli Humble Pie e con quel bestseller solista che porta il nome di Comes Alive. Prima e dopo quel live, però, non si può certo dire che la sua carriera solista sia stata costellata di capolavori, anche se gli ultimi anni hanno visto Frampton vivere una sorta di seconda giovinezza, corroborata da un filotto di dischi tra i migliori di sempre: Fingerprints (2006), strumentale e vincitore di un Grammy, Thank You Mr. Churchill (2010) e Acoustic Classics (2016), ottima rivisitazione in acustico dei suoi cavalli di battaglia.
Un’artista in ripresa, dunque, a cui però la buona sorte ha voltato le spalle: Frampton, malato di una grave patologia degenerativa, ha annunciato l’addio alle scene, che ha deciso di celebrare con un ultimo tour. E con questo All Blues, probabilmente il suo miglior disco in studio di sempre.
Accompagnato da una band rodatissima di sessionisti (Adam Lester, chitarra e voce, Rob Arthur, tastiere, chitarra e voce e Dan Wojciechowski, batteria) e omaggiato da un pugno di ospiti illustri (Kim Wilson, Larry Carlton, Steve Morse e Sonny Landreth), Frampton rilegge dieci grandi classici del blues, celebrando così il proprio antico amore per la musica con cui è cresciuto.
All Blues è un disco pimpante, suonato meravigliosamente bene dal chitarrista e dalla sua band, ed è attraversato, dalla prima all’ultima canzone, da un groove gioioso, che dona vitalità ed entusiasmo a riletture filologicamente corrette. Che Frampton, a prescindere dalle proprie capacità compositive, fosse (ed è, finché la malattia glielo consentirà) un chitarrista coi fiocchi, non è certo il sottoscritto a scoprirlo. Tuttavia, in questa veste da bluesman si supera e non è solo questione di tecnica: il suono della sua sei corde è scintillante, la fantasia negli assoli evita accuratamente l’ovvio e i diversi registri, quello più hard e muscolare e quello morbido e suadente, si alternano in una scaletta di brani notissimi ma riproposti con inaspettata verve.
Apre il disco I Just Want To Make Love To You, canzone scritta da Willie Dixon e cavallo di battaglia di Muddy Waters e Etta James, che Frampton interpreta con forza, dandole un taglio molto rock blues (l’assolo di armonica di Kim Wilson - The Fabulous Thunderbirds- è da manuale). She Caught The Katy, classico a firma Taj Mahal, mantiene l’originale andamento saltellante ma è innervata da continui soli di chitarra che le danno una potenza, anche in questo caso, più contigua al rock.
Frampton si misura anche con l’impossibile Georgia On My Mind, ma ha l’intelligenza di renderla strumentale, sostituendo il cantato di Ray Charles (chi mai potrebbe misurarsi con The Genius?) con il suono di una chitarra vellutata e atmosfere quasi jazzy. Can’t Judge A Book By The Cover suona meno rock’n’roll e più funky rispetto all’originale di Bo Diddley, e il piatto forte sono le svisate di slide che tagliano a fette il brano. Me And My Guitar, dal repertorio di Freddie King, è semplicemente travolgente, come The Thrill Is Gone del grande BB King, in cui Frampton se la gioca con Sonny Landreth in una battaglia di virtuosismi da far tremare i polsi.
Il momento migliore del disco, però, è anche quello che presenta maggiori difficoltà, e cioè la rilettura di All Blues, da A Kind Of Blue di Miles Davis. Per affrontare un simile capolavoro devi possedere due palle d’acciaio e grande consapevolezza. Frampton ne viene fuori da fuoriclasse: apertura spazzolata e in punta di plettro, poi la sua chitarra e quella di Larry Carlton si intrecciano e si inseguono, mentre il piano di Rob Arthur prima crea un incredibile effetto sciabordio sottotraccia e poi punteggia con la ritmica il lavoro delle due sei corde.
Una rilettura questa che varrebbe da sola l’acquisto del disco e che, seppur in limine, ci fa rivalutare un musicista che non sempre ha saputo onorare il proprio glorioso passato. Con questa ultima prova, ci riesce alla grande, confezionando un disco classicissimo eppure irrorato da un’inusitata dose di giovanile entusiasmo. Se la carriera di Frampton si dovesse chiudere qui, uscire di scena con All Blues, lascerebbe in tutti noi un grande rimpianto. Per tutto il resto, Peter, un sincero in bocca al lupo.

VOTO: 8





Blackswan, martedì 25/06/2019

lunedì 24 giugno 2019

IL MEGLIO DEL PEGGIO




Fino a qualche tempo fa non era chiaro cosa volesse fare da grande Alessandro Di Battista. Se il poliziotto cattivo del Movimento 5 Stelle, oppure il grillo parlante dopo il passo di lato del fondatore Beppe o semplicemente un battitore libero. Fatto sta che dopo un anno sabbatico con scenari di una vita alla Easy Rider, il tenace e sanguigno Dibba ritorna in Italia con il coltello tra i denti e un libro dal titolo che è tutto un programma. Il "fratello" di Luigi da politicamente scorretto non risparmia nessuno. 

Neppure i propri compagni di partito che definisce senza mezzi termini "burocrati rinchiusi 18 ore al giorno nei ministeri". Dagli incastri a coda di rondine imparati da apprendista falegname a quelli politici, il passo per Dibba e' breve. Ironia a parte, per i 5 Stelle e' arrivata l'ora più buia. Dopo gli insuccessi elettorali e la sonora bastonata alle Europee, per il Movimento si profila un futuro incerto e più che mai complicato. 

Con un Di Maio contestato all'interno, succube di un vicepremier sempre più Premier e alle prese con un'alleanza ingombrante con una Lega pigliatutto, Di Battista potrebbe essere un jolly da calare sul tavolo al momento opportuno. Resta da capire con quale ruolo e a quali condizioni. E se questo non è un "Luigi stai sereno", poco ci manca.

Cleopatra, lunedì 24/06/2019

sabato 22 giugno 2019

NEIL YOUNG + STRAY GATORS - TUSCALOOSA (Reprise, 2019)

Gli archivi di Neil Young sembrano davvero un pozzo senza fine da cui emergono costantemente autentiche gemme che fanno la felicità di milioni di fan sparsi in tutto il mondo. Ci ha abituati davvero bene, zio Neil, e non ci fa mancare proprio nulla. Così, dopo Songs For Judy, uscito a novembre del 2018, non solo il canadese ha annunciato le lavorazioni di un nuovo album in studio con i Crazy Horse, ma lancia sul mercato anche Tuscaloosa, nuova gemma live pescata dal suo glorioso passato.
Il disco è composto da undici tracce registrate la sera del 5 febbraio 1973 all’università di Tuscaloosa (Alabama), in un momento in cui la notorietà di Young, anche in virtù del best seller Harvest, pubblicato esattamente un anno prima, era altissima. Tuscaloosa, però, non contiene tutto il concerto: alcune canzoni, pare, non furono proprio registrate, altre, invece, erano troppo imperfette per la pubblicazione. E ciò sembra plausibile, visto che, anche i brani in scaletta, a voler essere perfezionisti, palesano evidenti sbavature che, però, nulla tolgono a uno show con momenti davvero intensi e vibranti.
Ci sono brani che a fine 1973 confluiranno in Time Fades Away (il live di inediti che Young ricusò per lungo tempo, perché di scarsa qualità audio e perché foriero di brutti ricordi legati all’abuso di droghe e alcol), due brani che compariranno addirittura in Tonight’s The Night (disco registrato quell’anno ma pubblicato solo nel 1975), la title track da After The Gold Rush e, ovviamente, alcuni high lights dal vendutissimo Harvest.
Il set è diviso in due parti, la prima acustica, con Neil in solitaria a eseguire Here We Are In The Years (dall’omonimo debutto del 1968) e After The Gold Rush, e poi con gli Stray Gators, per un filotto di super classici (Out On The Weekend, Harvest, Old Man, Heart Of Gold), fra cui brilla un’intensa Out Of The Weekend, con la steel guitar di Ben Keith a cucire la melodia sottotraccia.
La seconda parte, invece, è elettrica e ispida, e trasuda tutta l’immediatezza e l’imperfezione del live act: Time Fades Away, la rozza e potente New Mama (nell’aria, l’elettricità dei Crazy Horse) e in chiusura una crepuscolare Don’t Be Denied, sono esecuzioni un po' sgualcite ma di grande effetto emotivo.
La migliore del lotto, a parere di chi scrive, risulta Alabama, cantata proprio nello stato da cui la canzone prende il nome (tra l’altro, tristemente famoso in questi giorni, per la promulgazione di leggi dal sapore medioevale), davanti a un pubblico, di cui sarebbe stato belle vedere l’espressione del volto, mentre Neil cantava i versi: “I’m from a new land/ I come to you and see all this ruin”.
Tuscaloosa non è certo il miglior live uscito dagli immensi archivi di Young, eppure, nonostante le esecuzioni abbiamo una messa a fuoco non sempre centrata, le undici canzoni in scaletta vibrano di un’intensità spigolosa, pungente, quasi selvaggia. Così, a prescindere da una qualità non eccelsa, questo live resta comunque una vivida testimonianza di un delicato momento della carriera del canadese: il successo, le dipendenze e la trilogia del dolore che sta per bussare alla porta. Il fuoco brucia, talvolta, divampa, e lo possiamo ascoltare mentre crepita, nelle nostre orecchie e sulla pelle. Imperfetto e grezzo, comunque Neil Young.

VOTO: 7





Blackswan, sabato 22/06/2019

venerdì 21 giugno 2019

PREVIEW




“La nostra salivazione fa sì che tutto abbia un sapore peggiore,” canta Ty Segall in “Taste”, il primo singolo del suo prossimo album FIRST TASTE, in uscita il 2 agosto.
Sta parlando di noi, di come siamo padroni del nostro destino, narratori della nostra profezia, creatori delle nostre scelte malate. È un avvertimento, ma questa volta Segall punta il dito anche contro se stesso. È uno di noi. First Taste è il disco introspettivo dopo le estroversioni di Freedom’s Goblin del 2018. Versi di lotta si snodano lungo le canzone mentre Segall riflette sulla famiglia, rivisitando il passato e anticipando il futuro. Pattina attraverso l’unità, l’essere uno, l’autostima, i genitori – tutte le gioie di un’infanzia piena di pioggia – mentre raggiunge l’esterno nel qui e ora, desideroso di impulsi condivisi.
I succhi creativi di Segall suggerivano nuovi e radicali (nel senso più antico della parola) territori musicali: koto, bouzouki, mandolino, sassofoni e ottoni, voci e diverse tonalità. Segall suona la batteria che sentirete sugli speaker di sinistra, mentre Charles Moothart su quelli di destra. La prodezza vocale è un sollievo fresco contro la sua orchestra mutante, avvolgendo la tensione attraverso alcune delle sue canzoni più riflessive, in totale controllo del suo grido ferino. Quale che sia il mood, qui ci sono ballate leggere e rock impetuosi. La firma di Segall è ovunque ma a differenza dello stile libero e festoso del precedente album, queste dodici tracce formano un ciclo di suoni e canzoni che focalizzano il pensiero.
Ty Segall & The Freedom Band porteranno i loro elettrizzanti show da Los Angeles a New York e, a fine anno, in Europa. Suoneranno First Taste per intero insieme ad altri album selezionati dal suo vasto catalogo.





Blackswan, venerdì 21/06/2019

giovedì 20 giugno 2019

ALLUME - ODE (Soffici Dischi/Audioglobe, 2019)

Un’onda sonica, un vero e proprio muro di suono fragoroso, sferragliante, definitivo, contro il quale è inevitabile schiantarsi. Fate, quindi, ben attenzione al volume dello stereo quando ascoltate Ode (acronimo di Orizzonte Degli Eventi), disco d’esordio della band aretina degli Allume, perché potreste avere seri problemi con il vicinato.
Mario Caruso (voce e chitarra), Nicola Mancini (basso, sintetizzatore), Nicola Cigolini (batteria) forgiano un disco composto da dieci canzoni rumorose e disturbanti, che tirano dritte dall’inizio alla fine senza cercare compromessi, senza piegarsi alle mode, senza preoccuparsi della tenuta dei nostri padiglioni auricolari. Gli Allume si muovono con agilità attraverso i territori rocciosi dello stoner rock, inglobando nel genere anche elementi alternative, psichedelici e blues, con un’attitudine all’assalto frontale che sembra ereditato dal metal core.
Se è inevitabile cogliere fra le note echi che riportano a band di peso come Fu Manchu, Monster Magnet, Queens Of Stone Age e Clutch, gli Allume hanno il merito di scartare dall’ovvio, evitando una mera operazione di copia incolla, per seguire un proprio stile ben definito, derivativo, certo, ma mai creativamente supino innanzi alle proprie fonti di ispirazione.
La scelta di cantare in italiano, poi, è coraggiosa e vincente, e permette di comprendere appieno e, soprattutto, immedesimarsi, nelle liriche, che sono uno dei punti di forza del disco. Testi urticanti, intrisi di nichilismo, parole affilate che parlano di disagio, di afflizione (“Ho sepolto l’amore Nel fondo di un campo Sognavo un mondo a colori Nei piedi di un altro” da Nessun Perdono), di incomunicabilità (“Ho bisogno di respirare Dammi un motivo È una pena capitale Il tuo mutismo fa soffocare” da Stanze), di un male di vivere che obbliga a misurarsi con i fantasmi del passato e corrode la spontaneità dei rapporti personali (“I tuoi progetti sono i miei difetti, è un’usura, una macchinazione, la tua realtà è macchiata col sangue, la mia difesa un muro che piange” da Monumenti 1st).
Sono una macchina da guerra, gli Allume, e non fanno sconti: il persistente odore di cordite, le chitarre che mirano ad alzo zero e non danno scampo, la sezione ritmica arrembante, e la voce di Mario Caruso, che si muove appassionata sul sottile confine che separa rabbia e disperazione, sono il marchio di fabbrica di una band pronta a conquistare la scena rock nazionale.
Ode è un opera compatta, omogenea nei suoni e coerente nelle idee, composta da dieci tracce (no filler) che mantengono intatta la propria forza dirompente anche dopo numerosi ascolti e che sorprendono, a tratti, con inaspettate aperture melodiche (impossibile resistere al riff che sferza la superba Eco Dei Marinai).
Un disco non per tutti, certo; ma se amate una musica senza compromessi, che vi guarda in faccia digrignando i denti, mentre negli occhi divampa l’ardore, Ode fa sicuramente per voi. Consigliatissimo!

VOTO: 8 





Blackswan, giovedì 20/06/2019

mercoledì 19 giugno 2019

PREVIEW



Grazie al loro debut album "Live For The Moment" del 2017 il quartetto di Sheffield THE SHERLOCKS si è affermato come una delle band di riferimento della nuova scena inglese alt-rock e indie, debuttando al n° 6 dell classifiche e che li ha portati ad aprire il tour europeo di Liam Gallager, fino ad arrivare a suonare insieme a lui anche in Giappone.
Ora la band è pronta per iniziare un nuovo capitolo della propria carriera con l'annuncio della pubblicazione del nuovo album "Under Your Sky" in uscita il 4 ottobre via Infectious/BMG.
Se "Live For The Moment" era uno squarcio sulle sofferenze della gioventù, il nuovo disco vede il frontman Kiaran Crooke scrivere canzoni che collegano l'esuberanza dei giovani con la maturità e l'aspetto più riflessivo di una età più adulta.
Questo nuovo approccio si riflette perfettamente nel primo singolo "NYC (sing it Loud)" che è stata trasmessa in anteprima da Annie Mac a Radio 1, “I wanna see the world with you,” canta Kiaran, immaginando di “getting lost in the city for a day”.
Le canzoni nascono dalle esperienze personali, per la maggior parte di Kiaran, ma sono universali sul piano emotivo: "The driving ‘I Want It All’ reminisces over a gloriously stormy festival weekend in Wales, along with other memorable moments I spent with a special someone. Then the Springsteen-tinged ‘Time To Go’ celebrates the more casual romantic encounter.".
Sebbene ci siano canzoni che toccano i temi della disperazione, della perdita di ambizioni, come in 'Dreams', o i vari delicati aspetti delle relazioni amorose, come in 'Waiting', Kiaran affronta temi legati anche alle persone che vivono nelle sua città sempre in maniera malinconica, ma lasciando intravedere un futuro più positivo e in cui sperare.
Il processo di registrazione di "Under Your Sky" è stato decismente più strutturato rispetto al loro debut album: hanno trascorso 4 mesi, 5 giorni a settimana, nei Liverpool’s Parr Street Studios, con The Coral’s James Skelly alla produzione.
"Under Your Sky" sarà disponibile in digitale, cd, vinile e formato cassetta e ci sarà anche un'edizione limitata in vinile blu con un artowrk inedito.





Blackswan, mercoledì 19/06/2019

martedì 18 giugno 2019

BRUCE SPRINGSTEEN - WESTERN STARS (Columbia/Sony, 2019)


Non è facile recensire un disco di Springsteen, quando si è fan: se sei oggettivo fai torto a te stesso, se non lo sei, fai torto a chi legge. E poi, è un dato di fatto, il Boss è un artista divisivo: per alcuni è una fede, per altri un vecchio bollito che non fa un disco decente da… (ogni detrattore ha il suo anno preferito per indicare l’inizio del declino). Western Stars, tra l’altro, possiede un surplus di difficoltà, perché un disco “diverso”, anomalo, punteggiato da arrangiamenti rigogliosi (ridondanti e leziosi, dirà qualcuno), che lo rendono un unicum nella discografia di Springsteen, tanto che, consentitemi la boutade dadaista, potrà piacere a chi non ha mai amato il Boss e magari dispiacere anche ai più ferventi credenti. C’è un solo modo, quindi, per raccontarlo, che è quello di partire dall’unica distinzione che, a prescindere dai legittimi gusti personali, conta davvero, e cioè quello fra musica bella o brutta. Così, a meno che non siate sordi, prevenuti o in malafede, basta un solo ascolto dell’album per rendersi conto che è incredibilmente bello.
Un disco diverso, su questo non ci piove, figlio del mood confessionale di On Broadway, quello spettacolo che nel 2018 ha presentato al mondo lo Springsteen più intimo. Una sorta di zibaldone esistenziale, un momento di raccoglimento in cui il Boss si raccontava con il cuore in mano, facendo il bilancio della propria vita, denudando la rockstar perché fosse chiaro a tutti che, dietro lo star system, l’icona, il personaggio di successo, c’era (e c’è) un uomo, con le sue gioie, i suoi dolori, le sue imperfezioni.
Western Stars riprende il filo di quello spettacolo: è un disco in cui Springsteen torna a raccontarsi attraverso il filtro, però, di storie inventate e di quei personaggi, sconfitti, derelitti, malinconici, eppure mai domi, che da sempre hanno punteggiato la sua poetica. On Broadway era una biografia, né più né meno, me stesso per me stesso, in cerca di una catarsi. In Western Stars, invece, Springsteen dimostra di essere una delle voci narranti più credibili dell’America, di oggi e di ieri. Alla soglia dei settantant’anni, torna a riflettere sul tempo trascorso e su quello che resta. E lo fa con un disco nostalgico, struggente, intimista, senza che però la malinconia forzi la mano alla scrittura. Lo sguardo è lucido, sereno, rilassato. È lo sguardo di chi sa di aver tenuto dritta la barra, di aver sempre cercato di dare il meglio di sé, di chi si avvicina al termine della propria vita senza dover fare i conti con rimpianti e rimorsi.
Una narrazione personale, però, che il grande romanziere rende universale. E non c’era altro modo di farlo se non cambiando stile, ammantando una musica scarna (perché l’anima di queste canzoni è essenziale) di arrangiamenti floridi, lussureggianti, vigorosi. È forse questa la chiave per comprendere Western Stars: quegli archi, così dominanti e insistiti, servono a dare ampiezza al linguaggio, sono funzionali a rendere l’intimità delle storie narrate patrimonio di tutti. Quegli archi sono il respiro dell’America, sono l’epos che attraversa il romanzo, sono gli spazi aperti, le distanze e gli orizzonti, sono il cavallo in copertina, ancora libero, vivo e scalciante, consapevole che quella grande prateria, che rappresenta la vita, è una corsa a perdifiato verso il futuro.
Ci sono grandi canzoni in Western Stars, alcune tra le migliori mai scritte da Springsteen; e c’è una visione d’insieme, una cifra stilistica coerente e un linguaggio che, piaccia o meno, solo i grandi possiedono (possiamo fare un applauso al co-produttore Ron Aniello, per favore?).
Un disco “diverso”, dicevamo, perché in Western Stars il rock non c’è, fatevene una ragione. Ci sono le radici, il suono dell’America e dei suoi strumenti tradizionali, che sono il DNA del Boss; ma c’è anche il piacere di scrivere piccole gemme radiofoniche, il gusto per la suggestione e il languore, la forma che si sovrappone e assimila la sostanza, lo sguardo cinematico che si sostituisce all’impeto e al sudore della rockstar.
Sarebbe impervio, per motivi di spazio, affrontare canzone per canzone, e tutte meriterebbero, perché qui non ci sono filler, e l’intensità del livello di scrittura è costante, a differenza delle ultime prove che facevano intravvedere una certa stanchezza d’ispirazione.
Hitch Hikin’, posta in apertura, è la chiave per aprire lo scrigno di questo nuovo Springsteen: è l’intimo che diventa spazio, un cuore errabondo che non si arrende al peso della vita, il suono americano che trova nuova luce negli arrangiamenti. Gli stessi che fanno scintillare di bellezza The Wayfarer, processo alchemico con cui il boss si trasforma in un Burt Bacharach del futuro. C’è, poi, Tucson Train, l’epopea della frontiera riletta attraverso il cinemascope dei film western anni ’50, ci sono il divertissement di Sleepy Joe’s Cafè o il sole al tramonto di Sundown, sguardo illanguidito e melodia acchiappatutto, c’è l’umanità traboccante della title track e quella steel guitar spettrale su cui si posa la polvere dei ricordi, c’è l’immensa Moonlight Motel, con le lacrime che bagnano le corde della chitarra, c’è There Goes My Miracle, sbeffeggiata da molti prima dell’uscita del disco, e che invece è la canzone pop più bella ascoltata quest’anno. E c’è Chasin’ Wild Horses, uno Springsteen millesimato che gonfierà il cuore ai nostalgici di The River.
Su tutto, però, c’è il Boss, un’artista che ci tiene compagnia da quasi mezzo secolo e che, come ogni uomo, ha avuto i suoi giorni di gloria e le sue cadute, le sue canzoni belle e quelle che ci hanno fatto dubitare. Un uomo che, però, è sempre stato coerente a se stesso, anche quando, come in Western Stars, ha deciso di raccontarsi con un nuovo linguaggio. Fan o no, questo glielo dovete.  Anche perché ci ha regalato uno dei dischi più belli del 2019.
Love you, blood brother.

VOTO: 8





Blackswan, martedì 18/06/2019