giovedì 11 luglio 2019

BILL FAY - LIFE IS PEOPLE (Dead Oceans, 2012)

La lentezza è sempre stata un valore, ma oggi, in quest’epoca di frenesia tecnologica, è, probabilmente, il bene più prezioso di tutti. Viviamo in una schizofrenica e inesauribile agitazione, i nostri giorni ci sfuggono dalle dita, inconsapevolmente, come granelli di sabbia al vento, e consumiamo e centrifughiamo ogni cosa come se fossimo rotative perennemente in funzione e traessimo solo dal continuo movimento il senso ultimo dell'esistenza. Tutto è veloce, nulla sta fermo. Anche la musica: migliaia di dischi da scaricare nel lasso di tempo di un click, fast food insapore che impoverisce l’arte e alimenta l’oblio.
Succede, poi, che scopri un disco come Life Is People e quasi d'istinto, senti il bisogno di fermarti, metterti a sedere e riflettere. Prendere tempo, ascoltare. Bill Fay è un grande cantautore, di quelli però che camminano con passo leggero, così leggero da non lasciare che tenui impronte sul lungo percorso tracciato nei decenni dalla musica. Eppure ti accorgi che esistono quando il caso ti fa incontrare una delle loro canzoni, lasciate in giro nel corso degli anni con garbata discrezione, come se la bellezza fragile di quelle note potesse sciuparsi per troppi ascolti.
Non è un caso che Fay abbia pubblicato due splendidi dischi agli inizi degli anni '70 e poi si sia fermato, lasciando in noi solo pochi, sbiaditi ricordi. Doveva fare altro, evidentemente, reinventarsi un mestiere e un'identità, forse semplicemente voleva vivere, e vivere in modo semplice, lontano dai clamori e da quello star system che quasi sempre piega l'arte alla logica del profitto e logora chi il profitto non lo fa. Ci sono voluti quarantun anni perchè Fay tornasse a incidere. Forse non aveva nulla da dire o forse aspettava il momento più propizio per poter cantare al meglio le sue canzoni.
In fin dei conti, non è la prima volta che ci imbattiamo in musicisti per cui la lentezza è un valore aggiunto della creatività: si pensi ai Blue Nile di Paul Buchanan, sette anni tra un disco e l'altro, a Peter Gabriel che in diciotto anni (dal 1992 al 2010) ha rilasciato solo tre dischi in studio, agli Spain, tornati alla ribalta nel 2012 dopo undici anni di silenzio, e, perché no, al grande pianista Gleen Gould, che incise le Variazioni di Goldbergh di Bach, la prima volta, nel 1955 e poi, non soddisfatto del risultato e dopo averci riflettuto un po’ su, una seconda volta, nel 1981.
Fay, invece, ha lasciato trascorrere quarantun anni: metà della vita di un essere umano che vive a lungo, quasi un’eternità. Ha aspettato che il mondo si dimenticasse di lui, che le sue belle canzoni di un tempo si tramutassero in sbiadite icone di una stagione lontana e che lui stesso si trasformasse in un altro uomo, con un volto diverso, un vissuto più ricco, e un'anima che, come il buon vino, invecchiando, maturasse nei profumi e nella struttura.
Life Is People è il risultato di questa attesa, il frutto, probabilmente, di mille resipiscenze. Eppure il disco, incredibilmente, suona semplice, possiede un andamento umorale, quasi istintuale quando alterna melodie che giocano coi raggi del sole, per poi imbrunirsi come d'incanto sfiorate da una crepuscolare penombra. Canzoni immediate, certo, ma non per questo prevedibili. Anzi, vi è così tanta ricchezza compositiva, che Life Is People bisogna assaporarlo piano, ascolto dopo ascolto dopo ascolto, centellinando con parsimonia le fascinazioni, i rimandi, le implicazioni emotive. Non è una questione di testa, sia ben inteso, ma di cuore.
Le canzoni di Fay vibrano sotto pelle, gonfiano l'anima di umori, pervadono i nostri sensi di frementi nostalgie, illanguidiscono con tenerezze inesplicabili, inebriano di una remota, antichissima sacralità, che è tendenza all'assoluto, forse ricerca del divino (ascoltate la sublime preghiera di Thank You Lord, ballata in equilibrio fra estasi e tormento) o forse, più semplicemente, sguardo sull’infinito. Nessuna delle tredici canzoni che compongono la scaletta del disco passa attraverso di noi senza lasciarci qualcosa, non c'è un attimo che non risulti necessario, nulla che non finisca in qualche modo per stordirci d'emozione. Le note fluiscono, come trasportate da un refolo di salvifico vento, sollevate appena da un fraseggio di piano, intuite in un lontano noise chitarristico, dipinte dai cromatismi cangianti di un folk speziato d'America, cullate da una voce che ricorda il tepore di un camino quando fuori il freddo percuote la pelle.
E poi, c’è quella canzone, Jesus Etc. (cover dei Wilco, tratta da Yankees Hotel Foxtrot), che manda al tappeto, stordendo con un deliquio di emozioni che azzera ogni tentativo di razionalizzazione.
Fay spoglia l'originale di ogni cromatismo pop, e cuce, con la sola trama della voce e del piano, un’interpretazione tanto decisiva da entrare di diritto nel breve novero delle canzoni di cui ci ricorderemo in eterno. Così bella e struggente, che saremmo disposti ad attendere altri quarant’anni per poterne ascoltare una uguale.





Blackswan, giovedì 11/07/2019

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