La
 lentezza è sempre stata un valore, ma oggi, in quest’epoca di frenesia 
tecnologica, è, probabilmente, il bene più prezioso di tutti. Viviamo in
 una schizofrenica e inesauribile agitazione, i nostri giorni ci 
sfuggono dalle dita, inconsapevolmente, come granelli di sabbia al 
vento, e consumiamo e centrifughiamo ogni cosa come se fossimo rotative 
perennemente in funzione e traessimo solo dal continuo movimento il 
senso ultimo dell'esistenza. Tutto è veloce, nulla sta fermo. Anche la 
musica: migliaia di dischi da scaricare nel lasso di tempo di un click, 
fast food insapore che impoverisce l’arte e alimenta l’oblio.
Succede, poi, che scopri un disco come Life Is People
 e quasi d'istinto, senti il bisogno di fermarti, metterti a sedere e 
riflettere. Prendere tempo, ascoltare. Bill Fay è un grande cantautore, 
di quelli però che camminano con passo leggero, così leggero da non 
lasciare che tenui impronte sul lungo percorso tracciato nei decenni 
dalla musica. Eppure ti accorgi che esistono quando il caso ti fa 
incontrare una delle loro canzoni, lasciate in giro nel corso degli anni
 con garbata discrezione, come se la bellezza fragile di quelle note 
potesse sciuparsi per troppi ascolti.
Non
 è un caso che Fay abbia pubblicato due splendidi dischi agli inizi 
degli anni '70 e poi si sia fermato, lasciando in noi solo pochi, 
sbiaditi ricordi. Doveva fare altro, evidentemente, reinventarsi un 
mestiere e un'identità, forse semplicemente voleva vivere, e vivere in 
modo semplice, lontano dai clamori e da quello star system che quasi 
sempre piega l'arte alla logica del profitto e logora chi il profitto 
non lo fa. Ci sono voluti quarantun anni perchè Fay tornasse a incidere.
 Forse non aveva nulla da dire o forse aspettava il momento più propizio
 per poter cantare al meglio le sue canzoni.
In
 fin dei conti, non è la prima volta che ci imbattiamo in musicisti per 
cui la lentezza è un valore aggiunto della creatività: si pensi ai Blue 
Nile di Paul Buchanan, sette anni tra un disco e l'altro, a Peter 
Gabriel che in diciotto anni (dal 1992 al 2010) ha rilasciato solo tre 
dischi in studio, agli Spain, tornati alla ribalta nel 2012 dopo undici 
anni di silenzio, e, perché no, al grande pianista Gleen Gould, che 
incise le Variazioni di Goldbergh di Bach, la prima volta, nel 1955 e poi, non soddisfatto del risultato e dopo averci riflettuto un po’ su, una seconda volta, nel 1981.
Fay,
 invece, ha lasciato trascorrere quarantun anni: metà della vita di un 
essere umano che vive a lungo, quasi un’eternità. Ha aspettato che il 
mondo si dimenticasse di lui, che le sue belle canzoni di un tempo si 
tramutassero in sbiadite icone di una stagione lontana e che lui stesso 
si trasformasse in un altro uomo, con un volto diverso, un vissuto più 
ricco, e un'anima che, come il buon vino, invecchiando, maturasse nei 
profumi e nella struttura.
Life Is People
 è il risultato di questa attesa, il frutto, probabilmente, di mille 
resipiscenze. Eppure il disco, incredibilmente, suona semplice, possiede
 un
 andamento umorale, quasi istintuale quando alterna melodie che giocano 
coi raggi del sole, per poi imbrunirsi come d'incanto sfiorate da una 
crepuscolare penombra. Canzoni immediate, certo, ma non per questo 
prevedibili. Anzi, vi è così tanta ricchezza compositiva, che Life Is People
 bisogna assaporarlo piano, ascolto dopo ascolto dopo ascolto, 
centellinando con parsimonia le fascinazioni, i rimandi, le implicazioni
 emotive. Non è una questione di testa, sia ben inteso, ma di cuore.
Le
 canzoni di Fay vibrano sotto pelle, gonfiano l'anima di umori, 
pervadono i nostri sensi di frementi nostalgie, illanguidiscono con 
tenerezze inesplicabili, inebriano di una remota, antichissima 
sacralità, che è tendenza all'assoluto, forse ricerca del divino 
(ascoltate la sublime preghiera di Thank You Lord, ballata in 
equilibrio fra estasi e tormento) o forse, più semplicemente, sguardo 
sull’infinito. Nessuna delle tredici canzoni che compongono la scaletta 
del disco passa attraverso di noi senza lasciarci qualcosa, non c'è un 
attimo che non risulti necessario, nulla che non finisca in qualche modo
 per stordirci d'emozione. Le note fluiscono, come trasportate da un 
refolo di salvifico vento, sollevate appena da un fraseggio di piano, 
intuite in un lontano noise chitarristico, dipinte dai cromatismi 
cangianti di un folk speziato d'America, cullate da una voce che ricorda
 il tepore di un camino quando fuori il freddo percuote la pelle.
E poi, c’è quella canzone, Jesus Etc.
 (cover dei Wilco, tratta da Yankees Hotel Foxtrot), che manda al 
tappeto, stordendo con un deliquio di emozioni che azzera ogni tentativo
 di razionalizzazione.
Fay
 spoglia l'originale di ogni cromatismo pop, e cuce, con la sola trama 
della voce e del piano, un’interpretazione tanto decisiva da entrare di 
diritto nel breve novero delle canzoni di cui ci ricorderemo in eterno. 
Così bella e struggente, che saremmo disposti ad attendere altri 
quarant’anni per poterne ascoltare una uguale.
Blackswan, giovedì 11/07/2019 

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