Nel 1976, quando esce Agents Of Fortune,
il disco di maggior successo dei Blue Oyster Cult, la band newyorkese
ha già esaurito il suo ciclo migliore da un punto di vista creativo.
Dopo questo momento in avanti, infatti, la carriera dei B.O.C. procede
in modo altalenante, tra dischi modesti ma commercialmente rilevanti (Cultosaurus Erectus, 1980) e ritorni di fiamma di ottimo livello (Fire Of Unknow Origin, 1981, il disco che contiene Burnin’ For You e Joan Crawford, per intenderci).
Agents Of Fortune è, in tal senso, un disco spartiacque: lascia alle spalle capolavori come Tyranny And Mutation (1973) e Secret Treaties
(1974), apre al declino successivo, ma porta in eredità il successo
planetario e quei riscontri commerciali (disco d’oro e disco di platino)
che precedentemente erano mancati.
Il merito dell’exploit è da ricondursi soprattutto a Don’t Fear The Reaper,
terzo brano in scaletta, che azzanna le classifiche (settima piazza in
Canada, dodicesima negli States, sedicesima in Inghilterra), consegnando
i B.O.C. all’eternità. Già, perché la canzone, oltre ad aver venduto
moltissimo, si consolida nel tempo come un evergreen rock che, a più di
quarant’anni dalla sua uscita, non ha ceduto un grammo del proprio peso
specifico al logorio del tempo.
Scritta
dal chitarrista Donald ”Buck Dharma” Roeser, la canzone sollevò non
poche polemiche al momento della sua uscita, in quanto il testo ambiguo
sembrava contenere un esplicito invito al suicidio (the reaper,
il mietitore, è un ovvio richiamo a una delle iconografie tradizionali
attraverso cui la morte viene umanizzata, sia al cinema che in
letteratura). Fu lo stesso autore, però, a fugare ogni dubbio a
proposito del contenuto testuale. Roeser, infatti, ha sempre sostenuto
di aver scritto la canzone, immaginandosi cosa sarebbe successo se fosse
morto in giovane età (l’uomo gode ancora di ottima salute) e di quanto
sia stupido temere qualcosa di ineluttabile, a cui inevitabilmente
tutti, prima o poi, dovranno rendere conto (“40, 000 men and women everyday”: quarantamila uomini e donne muoiono ogni giorno).
A
prescindere da questa prima quasi banale evidenza, la bellezza del
testo risiede semmai nella citazione shakespeariana di Romeo e
Giulietta, che sposta il tema principale della narrazione dalla morte
all’amore. Non quindi l’ennesimo riferimento al suicidio (tutti sanno
come finisce la tragedia di Shakespeare), ma invece l’assimilazione fra
l’eternità che unisce la morte alla più pura e totalizzante forma
d’amore (nel sentire comune, non esiste amore umano più alto – anzi ne è
l’archetipo- di quello fra i due sfortunati amanti veronesi).
A
volerci spingere oltre (ben oltre le intenzioni del suo autore) il
testo, inconsapevolmente, si ricollega al mito classico di Orfeo e
Euridice, straziante e commovente storia che da sempre ha ispirato
musicisti e letterati e che accosta per la prima volta il tema
dell’aldilà (gli inferi) e dell’ineluttabilità della morte a quello di
un amore che cerca disperatamente di lottare contro il fato per
guadagnarsi le porte dell’eternità (in ambito rock, per dire, i Genesis,
intorno al mito di Orfeo ed Euridice, avevano costruito la loro The Musical Box).
Da
un punto di vista squisitamente musicale, i cinque minuti e dieci
secondi che compongono il brano sono magistralmente costruiti intorno a
uno dei riff più celebri di sempre. Un riff acchiappone, di presa
facilissima e dai sentori byrdsiani, perfetto per i passaggi
radiofonici, morbido, ipnotico e al contempo vivace, capace di
restituire la sospensione amniotica dell’eternità e di creare una
sfasatura profonda fra l’evanescenza estatica delle note e la dimensione
gotica del tema trattato. Che ritorna, poi, inquietante, come un ghigno
sinistro, nella lunga esitazione centrale, in cui le chitarre creano un
vortice che risucchia l’ascoltatore verso uno sprofondo buio e
dolorosissimo, per poi spingerlo nuovamente verso l’alto, verso l’estasi
di un amore eterno come eterna è la morte.
Oltre
al grande lavoro alle chitarre di Bloom e Roeser, l’architrave su cui
si poggia la melodia del brano è costituito dallo spettacolare intreccio
fra i cori e i controcanti che, nello specifico, assumono un ruolo
centrale rispetto al cantato gentile di Bloom.
Ultima nota di colore: Don’t Fear The Reaper fu inserita da John Carpenter nella colonna sonora del suo film Halloween (1978), circostanza che contribuì ad alimentare ulteriormente il mito della canzone.
Blackswan, venerdì 24/01/2020
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