La
storia di Jason Isbell è la storia di una resurrezione, l’apologo di un
uomo che, grazie all’amore (di Amanda Shires) e all’affetto di tanti
amici, ha riportato tutto a casa, è tornato ad apprezzare il gusto di
vivere, ha scoperto le gioie della paternità e ha ritrovato la musica.
La sua musica.
Dal 2013, quando uscì il magnifico Southeastern,
confessione col cuore in mano dei giorni della dipendenza e della
ritrovata sobrietà, Isbell, in solitaria o con la backing band dei 400
Unit, ha inanellato un filotto di dischi memorabili, apprezzati dalla
critica e in grado di scalare le impervie charts americane e britanniche
fino alle prime piazze (vedasi l’exploit di The Nashville Sound nel 2017).
Soprattutto,
il songwriter e chitarrista originario dell’Alabama, ha creato con i
fan un vincolo di sangue di springsteeniana memoria, motivo principale
di un successo che forse nemmeno lui si aspettava. Come Springsteen,
sempre a fianco degli ultimi, dei diseredati e di chi cerca nella fuga
il riscatto a un’esistenza mediocre, anche Jason è il protagonista di
una narrazione universale, che usa parole semplici e una prosa sincera
per arrivare al cuore della gente. Il racconto di Isbell è il racconto
di un perdente che ce l’ha fatta, di una speranza che ha colto nel
segno, di una felicità che ha trovato la strada ed è arrivata a
destinazione. Non c’è, però, l’epica rock di Born To Run, bensì l’intima riflessione di Darkness On The Edge Of Town:
mettere a nudo le proprie debolezze, essere consapevoli dei propri
errori, constatare che la vita è insidiosa come un campo minato, sapere
che il baratro è proprio lì, a due passi da te, ma avere comunque la
forza di andare avanti, per cercare la felicità, che esiste, anche se è
la dirimpettaia più prossima dell’inferno.
Questa la sensazione che si prova, ascoltando le dieci canzoni di Reunions:
che Isbell sia uno di noi, e che come noi abbia mangiato croste di pan
duro e provato sprofondi nerissimi, prima di rivedere la luce. Non sono
solo grandi canzoni, quelle in scaletta, scritte e suonate benissimo;
sono, soprattutto, istanti di vita, raccontati senza filtri, senza
rinnegare i tormenti del passato, esibendo, semmai, con disarmante
schiettezza, le fragilità, i dubbi, il tormento della caducità
dell’attimo. E’ questa capacità di superare le barriere che separano
musicista e fan, vita e arte, questa visione realista e priva di
edulcorazione, ma al contempo non scevra da appassionato lirismo e
attraversata da un dilacerante Sturm und Drang di matrice romantica, a rendere Isbell uno dei più grandi songwriter americani contemporanei.
Se nella copertina di Southeastern,
Jason guardava in faccia il mondo, senza paura, come a dire, sono
ancora qui, sono tornato e sono pulito, dopo sette anni, la cover di Reunions
ci restituisce l’immagine di un uomo che guarda l’orizzonte con
speranza, certo, ma che fondamentalmente, e a dispetto del titolo, è e
rimane solo, perso nei suoi pensieri, alle prese con i fallimenti e le
frustrazioni, consapevole, fino in fondo, delle lezioni del proprio
passato.
Prodotto da Dave Cobb, ormai membro aggiunto della band, e suonato dagli affiatatissimi 400 Unit, Reunions
coagula in dieci canzoni i temi esistenziali cari al songwriter e la
sua idea di americana, in bilico fra incedere meditabondo e improvvise
accelerazioni per chitarra, a volte sovrapposti nella stessa canzone.
Aprono i quasi sette minuti di What've I Done To Help
(con il cameo dell’amico David Crosby), lungo brano rock con anima
gospel, in cui emergono con urgenza tutti gli interrogativi legati al
proprio passato. Un brano emblematico del livello di scrittura a cui è
giunto Isbell, capace di scavare in profondità e di toccare il cuore,
attraverso liriche di spessore e una linea melodica semplice, immediata.
Una
veracità e un’immediatezza che sono la forza trainante della scaletta,
sia quando il songwriter accende il motore della sua chitarra in
vibranti momenti di matrice decisamente rock (i fremiti della
springsteeniana Overseas, l’urlo liberatorio e anthemico di Be Afraid) sia quando si adagia su un tappeto di morbide tastiere (la struggente e malinconica Only Children), tratteggia vividamente, per piano, violino e chitarre, agrodolci ricordi d’infanzia (Dreamsicle) o pesca dal cilindro disarmanti metafore esistenziali (Running With Our Eyes Closed).
Ricco di sfumature, che vanno colte attraverso reiterati ascolti, Reunions è il disco attraverso cui Isbell prosegue la narrazione iniziata con Southeastern,
con sette anni di vita in più sulle spalle, e uno sguardo che non è più
solo quello del miracolato, ma di chi, invece, ha fatto tesoro del
miracolo, riflettendo a fondo su un impervio percorso di vita e sulla
precarietà del tutto.
Non
un punto di arrivo, ma una sorta di ulteriore ripartenza. Jason Isbell
continua a non fare sconti a se stesso, non molla la presa, si pone
domande, cerca ancora il senso, scava nella propria anima e indaga, in
un processo di immedesimazione col pubblico che, come lui, ogni giorno
lotta e soffre per tornare a vedere la luce.
VOTO: 9
Blackswan, venerdì 22/05/2020
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