Oggi,
un disco come quello d’esordio degli australiani Wolfmother, avrebbe
probabilmente tutt’altra accoglienza. Da qualche anno, infatti, il rock
derivativo e citazionista (soprattutto quello che guarda agli anni ’70) è
altamente divisivo, da un lato, apprezzato da schiere di nostalgici (ma
anche da tanti giovani che riscoprono quella stagione dorata attraverso
epigoni contemporanei), dall’altro, ferocemente avversato da chi vede
nel passatismo il peggiore di tutti i mali (vedasi le recenti querelle a
proposito dei Greta Van Fleet).
Nel
2005, invece, l’apprezzamento per questo genere di musica era
trasversale, la retromania era vista come una possibilità e, vado a
memoria, la critica era ben disposta verso gruppi come i Jet (vi
ricordate il loro Get Born, disco d’esordio datato 2003), i
Datsuns, i Vines, e compagnia cantante, che facevano della nostalgia una
bandiera da sventolare orgogliosamente.
I
Wolfmother arrivano da Sydney, Australia, sono capitanati da Andrew
Stockdale, riccioluto padre padrone del marchio, e coltivano un amore
viscerale verso l’hard rock anni ’60 e ’70, riletto, però, con un gusto
prevalentemente stoner. Dopo un primo Ep (2004), che in patria ottiene
un discreto successo di vendite e l’attenzione di pubblico e media, la
band si trasferisce a Los Angeles, dove registra e mixa l’omonimo disco
d’esordio, che verrà pubblicato ad aprile per il mercato inglese ed
europeo e a maggio per quello americano. L’album, in poco tempo, crea un
fragoroso clamore mediatico: vende un milione e mezzo di copie, i
singoli scalano le classifiche e Rolling Stone si abbandona a sperticati
elogi, indicando la band come la new sensation da tenere d’occhio da
qui all’eternità.
D’altra
parte, a prescindere dalla bontà delle canzoni, l’istrionico Stockdale è
personaggio a tutto tondo che attira facilmente l’attenzione della
stampa, e il terzetto, nonostante la giovane età dei componenti (oltre a
Stockdale, ci sono il bassista e tastierista Chris Ross e il batterista
Myles Heskett) sa il fatto suo, suona alla grande e dà vita a
infuocatissimi live act (li vidi nel 2006 al Rolling Stone di Milano e
posso assicurarvi che fu uno show coi fiocchi), tanto intensi da
meritare ai Wolfmother di aprire i concerti dei Pearl Jam. Mica pizza e
fichi.
In
scaletta, tredici canzoni che tradiscono fin da subito le fonti
d’ispirazione: ci sono gli immancabili Led Zeppelin (le bordate iniziali
di Dimension e White Unicorn, con Stockdale nei panni di un novello Plant), i Deep Purple (il singolo bomba Woman), i Black Sabbath (Colossal), qualche apertura al prog (la bellissima Mind’s Eyes) e anche una tiratissima sfuriata punk blues (Apple Tree).
Insomma,
materiale così classico che più classico non si può. Tuttavia, i
Wolfmother sono bravi a scartare dall’ovvio, citano ma non plagiano, e
insufflano le loro canzoni di debordante energia e qualche suono preso
in prestito dal presente, giusto per dimostrare che di anni ne hanno
venti e non sessanta. Un disco vintage da morire, ma accattivante,
palpitante e, cosa che non guasta mai, suonato benissimo.
Nemmeno
il tempo di assaporare il successo e Stockdale fa le bizze: caccia gli
altri due, che evidentemente si sentono imprigionati dai dictat del
capo, vuole sciogliere la band, poi ci ripensa, arruola altri musicisti e
trasforma il power trio in un quartetto. Passano quattro anni ed esce Cosmic Egg (2009), altro disco vincente, ricco di brani che puntano la classifica, e contenete almeno una ballata (Far Away),
da mandare a memoria. Il picco di gloria, però, è già passato, e quello
che verrà dopo, non così ispirato come i primi due full lenght, è
materia solo per fan della prima ora.
Blackswan, giovedì 28/05/2020
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