Il vento del deserto ha portato fino alle nostre orecchie occidentali il suggestivo e polveroso blues di realtà straordinarie come quelle di Tinariwen e Tamikrest, band apripista di un movimento che ormai da un lustro annovera fra le sue fila anche i Songhoy Blues.
Anche loro arrivano dal Mali, e per la precisione da Timbuktu, ma in realtà si sono formati a Bamako, perché costretti a scappare dalla loro città a causa della guerra civile e dell’imposizione della sharia. La storia, dunque, è simile a quasi tutte le band provenienti da quei territori flagellati, una storia di fuga e di paura, di resistenza attraverso la forza universale della musica, una sorta di carboneria in note, che ha dato speranza a tanti che si sono visti privare delle libertà più elementari.
Una musica, quella di queste band, che ha il senso di una rinascita, che possiede la forza di un riscatto, e che è intrinsecamente politica perché, a prescindere dalle liriche, veicola verso i paesi occidentali un grido d’aiuto, che chiede con forza non solo apprezzamento artistico ma anche attenzione mediatica verso una cronaca spesso e volentieri dimenticata.
Già due dischi all’attivo, i cui titoli esplicitano molto bene quanto sopra affermato, Music In Exile (2015) e Résistance (2017), la partecipazione a diversi festival in giro per l’Europa e l’America, che ne hanno consolidato la fama, e ora un terzo disco, questo Optimisme, che conferma quanto di buono fatto dal quartetto finora.
I Songhoy Blues, però, pur esibendo con orgoglio le proprie radici ed evocando le sonorità tradizionali della propria terra, forgiano undici canzoni affamate di grinta e di rock: non il blues fascinoso ed elusivo dei Tinariwen, non quelle sonorità che evocano accecanti stellate e fuochi berberi nella notte del deserto, ma un tiro più diretto, gagliardo, trafitto da un impeto chitarristico che sembra nascere da bassofondi metropolitani e non dalla contemplazione di suggestivi spazi aperti.
Ci sono sentori d’Africa, certo, ma c’è anche il rock blues plasmato dagli occidentali, c’è l’urgenza espressiva che spinge verso minutaggi quasi punk, con canzoni che al massimo superano di poco i tre minuti, c’è un fremente impeto che sostituisce l’affabulazione di trame ipnotiche.
Così, quando parte l’opener Badala, una sventagliata di elettricità urticante e nervosa, sembra quasi di immergersi in territori hard garage alla Hellacopters, tanto per fare una citazione volante; e non sono da meno altre dardeggianti derapate come Worry, intersecata dai fendenti letali di una chitarra in acido, o Assadja, sconquassata dalle extrasistole di un drumming ansiogeno.
Solo trentacinque minuti di durata per un filotto di canzoni che arrivano alle orecchie vigorose, fiere e appassionate (solo nella conclusiva Kouma viene tirato il freno a mano), e che forse hanno come limite solo quello di girare intorno alla stessa idea di riff, riuscitissimi e accattivanti, ma reiterati in loop su ritmiche saltellanti. Il pelo nell’uovo di un disco vibrante, che si gode dalla prima all’ultima canzone.
VOTO: 7
Blackswan, giovedì 19/11/2020
Nessun commento:
Posta un commento