Il 10 novembre del 2005, gli Editors vengono a suonare al Rainbow di Milano. A luglio, hanno pubblicato il loro album d’esordio, The Back Room, che in Inghilterra ha già venduto duecentocinquantamila copie, mentre da noi trova un riscontro tiepido, finendo soprattutto nelle discografie di quegli appassionati di post punk, che vedono nella band britannica degli epigoni dei Joy Division, trovando nostalgici riferimenti agli anni’80.
Il pubblico, composto da qualche centinaia di fan è caldissimo, il concerto, impostato sulla scaletta del disco, è breve ma intenso, e fa subito intravvedere l’attitudine live e il talento artistico di una giovane band, da lì a qualche anno destinata a un notevole successo mediatico. E’ l’inizio di un percorso che, due anni dopo, porterà alla pubblicazione di An End As A Start, il disco della consacrazione, che conferma gli Editors come una realtà e non più come un prospetto, e vale al gruppo britannico un disco di platino conquistato il giorno stesso della pubblicazione.
E’ anche il disco, questo, con cui lo stile di Tom Smith e soci trova completa definizione (almeno per questa prima parte di carriera), cogliendo probabilmente l’apice espressivo della band: vengono smussate, e non poco, le ingenuità e le citazioni del primo lavoro, lavorando in profondità sulla struttura dei brani e accentuandone la drammaticità e il mood malinconico. Un disco meno dritto e diretto, che possiede un suono più elaborato, ma ancora spesso incardinato sull’urgenza devastante della chitarra di Chris Urbanowicz, e foriero di uno sguardo più attuale e moderno, che non rinnega però i propri padri putativi, dai Joy Division agli Echo And The Bunnymen, passando attraverso un certo rock da stadio targato U2.
Il disco si apre con Smokers Outside The Hospital Doors, titolo evocativo di una poetica corrucciata e crepuscolare, che preferisce la penombra, il grigio delle periferie e la decadenza autunnale, alle luci e ai colori. L’inusuale intro di batteria (ben otto secondi), la voce drammatica e impostata di Tom Smith, gli accordi di pianoforte in minore, la chitarra di Urbanowicz che spinge la tensione al parossismo, e poi, improvvisa, quella pausa, a tre minuti dall’inizio, che sospende la teatrale epica del brano, in un sospiro di mesta rassegnazione, sono le armi di un’opener che fa balzare sulla sedia fin dal primo ascolto.
“The saddest thing that I'd ever seen were smokers outside the hospital doors”, canta Smith, cristallizzando un’immagine evocativa per molti, un momento di tristezza condiviso, quello dei fumatori fuori dalle porte dell’ospedale, che consumano nel fumo le proprie angosce, in attesa di una notizia che può restituire alla vita o sprofondare nel baratro del dolore.
Resta, tuttavia, solo un’immagine, perchè il testo (come si evince anche dal video che accompagna la canzone), sembra semmai riferirsi al tema della fuga come unica possibilità di riscattare un’esistenza senza più prospettiva, come il tentativo disperato di affrancarsi dal dolore, per provare a ricominciare da capo e tornare a vivere una vita appagante (I can't shake this feeling I've got, My dirty hands, have I been in the wars?...Someone turn me around, Can I start this again?).
Un desiderio di fuga talmente forte e totalizzante da spingere la ragazza protagonista del video a correre sulle acque, in un miracoloso allontanarsi da tutto e da tutti, per riconquistare finalmente quel dolce sorriso che le illumina il viso nella liberatoria sequenza finale.
Blackswan, martedì 12/01/2021
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