lunedì 26 aprile 2021

GRETA VAN FLEET - THE BATTLE AT GARDEN'S GATE (Republic Records, 2021)

 


Ci sono pochi gruppi o artisti al mondo tanto divisivi come i Greta Van Fleet, una band che crea opposti e bellicosi schieramenti e che innesca infinite e fratricide discussioni, non solo sulla qualità artistica della band americana, ma anche, più in generale, sullo stato del rock ai giorni nostri. La cosa strana, almeno per chi scrive, è che i Greta Van Fleet non siano invisi solo a chi questo genere non lo mastica (e questo è comprensibile) e mai lo masticherà, ma anche e soprattutto a quei tanti appassionati che dovrebbero fare i salti di gioia per l’esistenza della band. Sembra quasi, infatti, che proporre del classic rock nel 2021 (cosa che, peraltro, fanno, meno bene, centinaia di altri gruppi) venga considerato alla stregua del reato di lesa maestà, come se quella straordinaria epoca a cavallo fra la fine degli anni ’60 e la prima metà dei ’70 fosse una sorta di riserva aperta solo a vecchi rockettari di comprovato pedegree, e non, invece, a giovani ventenni, vogliosi di imbracciare la chitarra elettrica e fare un po' di casino. E tutto ciò, francamente, mi pare incomprensibile.

Perché, cari lettori, il rock non è morto, ma, anzi, proprio grazie a band come i Greta Van Fleet, gode di ottima salute. Il rock, in realtà, ha solo ribaltato la sua primigenia prospettiva: se un tempo era un grido di rivolta contro la famiglia, le istituzioni e una vita irreggimentata e abitudinaria, oggi è diventato un collante intergenerazionale, che unisce i giovani di allora e quelli di oggi in una battaglia impari contro le schiere ululanti del reggaeton e della trap. Se un tempo il rock era il carburante nobile che smuoveva la gioventù verso un futuro di lotte, di conquiste e di affermazione di valori anticonformisti, oggi rappresenta la tradizione, la qualità dell’artigianato, un pampleth di valori superati ma ancora indispensabili, la resistenza a una società che sta cambiando troppo velocemente, portandoci via il mondo che conoscevamo.

Cos’hanno fatto di male, allora, i Greta Van Fleet, che rappresentano l’iconografia tradizionale di quel mondo, rinfrescata peraltro da un’esuberante giovinezza? Sono troppo famosi per essere poco più che imberbi? Si sono permessi di violare le regole di quella casta di vecchi scoreggioni che: ”oggi non si fa più musica come negli anni ‘70”? Può darsi. Anche se, leggendo in giro, la maggior colpa che viene attribuita a questi quattro ragazzi americani è di essere derivativi, troppo derivativi. Un’obiezione che, a mio avviso, suona un po' pigra e un filo capziosa. Perché a voler forzare un po' la mano, si potrebbe dire che se non vi piace un disco che suona derivativo, è perché non avete più ascoltato nulla dall’anno domini 1969, o giù di lì. Siamo sinceri: non esiste al mondo un solo gruppo o un artista che non sia derivativo. Certo, alcuni lo sono clamorosamente, mentre altri, abili a forgiare un suono o uno stile, decisamente meno. Perché allora prendersela con i Greta Van Fleet? Perchéi loro detrattori, sono gli stessi che sbrodolano sulla discografia, che so, dei Black Crowes, e si eccitano come facoceri in calore ascoltando Shake Your Money Maker, facendo finta che i fratelli Robinson non abbiano, con straordinaria abilità, saccheggiato il songbook di Rolling Stones e Led Zeppelin, che peraltro sono state due tra le band più derivative della storia?

Fatta questa premessa e esaurito il pistolotto non richiesto, non resta che spendere due parole, siamo qui per questo, su The Battle At Garden’s Gate, secondo disco in studio dei Greta Van Fleet. Che, sono consapevole con questa affermazione di attirarmi un considerevole quantitativo di strali, è un disco della Madonna, di quelli che fai fatica a levare dal lettore. Queste dodici canzoni sono, infatti, intrinsecamente belle, sono suonate benissimo e arrangiate meglio, e non ammetterlo, a mio modesto parere, è semplicemente fare dell’ostruzionismo preconcetto.

La freccia più acuminata nella faretra dei Greta Van Fleet resta, però, la capacità di costruire un contesto musicale antico con una freschezza e una consapevolezza disarmanti. Un immaginario vitale, colorato e pulsante, che trova il suo filo conduttore in una narrazione carica di epos e che, certo, paga debito a quegli anni d’oro che tutti conosciamo, senza però perdersi in un muffito copia incolla. Tanto che l’affermazione: suonano come i Led Zeppelin, che può essere valida per un paio di brani, non di più, risulta alquanto deboluccia. I Greta Van Fleet, in realtà, hanno creato uno stile ben preciso e, soprattutto, hanno saputo rimodulare quell’esuberanza creativa che spingeva i grandi musicisti del passato a comporre quelli che oggi chiamiamo classici.

Mettete, allora, il disco sul piatto, chiudete gli occhi e fatevi travolgere dall’iniziale Heat Above: non solo una canzone, ma un grido liberatorio, una festosa affermazione d’identità, un vibrante hic et nunc che rinfocola una fiamma che forse si era affievolita, ma mai realmente spenta. Questi sono i Greta Van Fleet e questo è il loro suono: lo è nel vorticoso turbinio hippie di My Way, Soon, negli snodi progressive della cupa Age Of Machine, nell’epica travolgente di Built By Nations (questa, si, zeppeliniana al midollo), nella teatralità melodrammatica di Barbarians e negli umori gonfi di romanticismo della languida Broken Bells, una ballata tanto bella da togliere il fiato.

The Battle At Garden’s Gate non è un disco perfetto, qualche sforbiciata nel minutaggio e qualche smussatura d’enfasi avrebbero giovato alla resa complessiva della scaletta; e se Josh Kiszka sapesse modulare meglio quella voce così acuta, talvolta quasi stridula, ma anche così fortemente caratterizzante il suono della band, alcuni passaggi ne guadagnerebbero in sobrietà. Ma sono davvero piccoli difetti, retaggio della poca esperienza e della giovane età. Quel che conta davvero è poter contare, oggi, su una band che ha le idee chiare, è consapevole dei propri mezzi e sa dedicarsi alle proprie canzoni con quella passione e intensità che costituiscono il cuore pulsante del genere. Scrollatevi di dosso i preconcetti, date una chance a questi ragazzi e ascoltate il disco: il futuro del rock passa (anche) da qui.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, lunedì 26/04/2021

3 commenti:

Ezzelino da Romano ha detto...

A me continuano a non convincere.
Hai ragione nel dire che pescano dallo stesso serbatoio da cui hanno attinto molti altri.
Però forse il fatto che loro lo abbiano fatto per ultimi o quasi li rende ancor meno originali degli altri.
E poi mi sembra che abbiano qualcosa di posticcio.
Una roba un po' da talent.

Blackswan ha detto...

La musica è bella anche per questa diversa visione delle cose.:) Io, li seguo dagli esordi, e trovo che siamo migliorati tantissimo. Suonano bene, hanno idee (le canzoni sono abbastanza complesse nella struttura) e ci mettono passione, a differenza di tanti coetani che si limitano al copia e incolla. Poi, per carità, è una mia opinione, non un dogma. :)

giuseppe ha detto...

sembrano interessanti non li conoscevo -