STEVE GUNN annuncia il nuovo album OTHER YOU, in uscita il 27 agosto su Matador. Other You è il sesto album del cantautore americano originario della Pennsylvania.
L'album è stato registrato durante due viaggi a Los Angeles verso la
fine del 2020 e l'inizio del 2021 con il produttore Rob Schnapf (Beck,
Elliott Smith, Cass McCombs, Kurt Vile) presso i Mant Studios di sua
proprietà e con il musicista, nonchè amico di lunga data e
collaboratore, Justin Tripp.
Se
n’è andato troppo presto, Gary Moore, ucciso a soli 58 anni da uno di
quegli eccessi alcolici che hanno spesso caratterizzato la sua, ahimè,
troppo breve esistenza. Il suo lascito, però, è stato importante, sia in
termini quantitativi (una corposa discografia solista e la militanza in
band come Thin Lizzy, Skid Row, Colosseum II) che qualitativi (pochi al
mondo erano in grado di suonare (e far piangere) una Les Paul come
lui).
Dopo la pubblicazione di alcuni dischi live postumi (l’ultimo, Live In London
dello scorso anno), a dieci anni dalla sua scomparsa, gli archivi del
nordirlandese sono stati finalmente aperti per assemblare una nuova
uscita che, sebbene contenga alcuni momenti davvero notevoli, suggerisce
che di materiale ancora inedito ce ne sia poco e che quello presente
non sia proprio di qualità eccelsa. Strano, perchè Moore, per quanto
prematuramente scomparso, ha vissuto intensamente oltre quarant’anni di
carriera: dal jazz prog-rock di Colosseum II al suo periodo nei Thin
Lizzy, per non parlare poi di tanti dischi solisti in cui il chitarrista
ha spaziato dall’hard rock al rock celtico, per diventare infine un
alfiere del rock blues, grazie al suo tocco ferocemente appassionato,
timbricamente stupendo, magistralmente articolato e tecnicamente
impeccabile.
How Blue Can You Get
si concentra proprio sulla produzione blues di Moore, raccogliendo in
quarantacinque minuti otto tracce di originali inediti, cover e
alternative takes. Il disco prende il via con una doppietta mozzafiato:
la reinterpretazione ad alto numero di ottani di I'm Tore Down di Freddie King, seguita da un’altra vigorosa cover di Steppin’ Out
di Memphis Slim. E’ un po' un cliché dire che un chitarrista fa cantare
il proprio strumento, ma queste tracce dimostrano che la sua capacità
di comunicare attraverso le dita era veramente di un altro pianeta. Ciò è
particolarmente evidente anche in Love Can Make A Fool Of You, una ballata risalente all'epoca di Corridors of Power
(1982), in cui il chitarrista irlandese oltre al formidabile tocco
esprime al meglio tutto quel pathos emotivo che spesso caratterizzava le
sue migliori performance.
Sebbene
siano i momenti maggiormente attrattivi del disco, i due originali
inediti abbassano, purtroppo, il livello della scaletta. In My Dreams suona come la replica delle malinconiche e agrodolci Still Got The Blues e Parisienne Walkways,
con cui condivide lo stesso lick di chitarra: se quei due brani non
fossero esistiti, staremmo probabilmente scrivendo di una grande canzone
e non invece del parente povero di due dei momenti più significativi
della carriera di Moore. L’altro inedito, Looking At Your Picture,
nonostante il mood che evoca il sound del Delta, non va assolutamente
da nessuna parte e suona più come un abbozzo, un work in proggress da
rifinire. La stessa sensazione si ha anche con Done Somebody Wrong di Elmore James, e la title track,
che appaiono prive di corpo, come fossero figlie di sessioni di prova e
non invece frutto finale di un accurato lavoro di produzione.
In
definitiva, vista la quantità di terreno musicale che Moore ha
calpestato in vita e tenuto conto che questa è la sua prima
pubblicazione d'archivio non live, How Blue Can You Get non
rappresenta certo un tesoro imperdibile di gemme nascoste, ma semmai una
curiosità per fan irriducibili. Se, invece, non conoscete Moore, questo
non è certo il modo migliore per accostarsi a un formidabile
chitarrista, di cui, converrebbe semmai, recuperare il meglio della sua
ampia discografia.
Oggi,
ascoltare classic rock è il gesto più anticonvenzionale che esista.
Basta dare una rapida occhiata ai social per capire quanto questa musica
sia oggetto di sberleffi, quanto gli appassionati del genere siano
tacciati di passatismo, vecchi ruderi che vivono nei ricordi di una
musica obsoleta, slegata al presente e ispirata a icone ormai svuotate
di significato. Ed è strano, poi, vedere coloro che dovrebbero
difendere, con le unghie e coi denti, la musica che amano, indossare i
panni di spietati detrattori di giovani band (vedi Greta Van Fleet) che
cercano di emulare, e a volte ci riescono pure, le gesta di quei gruppi
che hanno scritto la storia (e la leggenda) del rock.
Eppure,
nonostante tutto, ci sono ancora gruppi che tengono viva questa musica,
che, indifferenti alle mode, con vibrante passione, continuano ad
attizzare un fuoco che altrimenti si sarebbe spento da anni. Originari
di Los Angeles, i Dirty Honey esordiscono con un disco prodotto e mixato
da Nick Didia (Rage Against The Machine, Bruce Springsteen, Stone
Temple Pilots, etc) e così classico che più classico non si può. Sono
giovani e ancora devono conquistare quella visibilità che, ad ascoltare
le otto canzoni in scaletta, già meriterebbero; nel frattempo, in attesa
dei giorni di gloria, danno alle stampe questo primo full length, assai
spartano, sia nella forma (la confezione minimal e priva di libretto,
la durata stringata) che nella sostanza (gli arrangiamenti asciutti,
l'approccio grezzo e senza artifici) ma già indicativo di una caratura
più che discreta. Il suono, come accennato, guarda al passato e in
scaletta i deja vù si sprecano.
L’opener California Dreaming,
trainata dal cantato graffiante di Marc Labelle, si spinge in territori
cari ai Led Zeppelin, ma con un retrogusto più americano che rimanda ai
Black Crowes. Derivativi, si, ma con stile: The Wire possiede un groove pazzesco, così come il nuovo singolo Tired Up,
che sembra uscito da un disco degli Aerosmith. Il tutto, però, suonato
con un attitudine festaiola e un approccio meno serioso di quello, ad
esempio, dei Greta Van Fleet. La sensazione, pertanto, è di autenticità e
freschezza, e di un’energia tracimante, che esplode nel riff sporco e
martellante di Take My Hand, nella derapata fulminante di Gypsy o nell’ennesima citazione Black Crowes della cazzutissima No Warning.
Chiudono il disco due gioiellini che esaltano nuovamente le doti di Labelle: The Morning, la cui spina dorsale è Ac/Dc al 100%, e Another Last Time,
virile ballatona in quota Rolling Stones e metronomo di una band che
cita tanto, ma che sa gestire con classe e passione un repertorio
altrimenti prevedibile.
I
Dirty Honey non sono solo l'ultimo di una lunga serie di gruppi rock
ispirati agli anni '70, sono semmai una band che esprime molto più della
somma delle evidenti influenze a cui si ispira e che possiede come
punto di forza la voce straordinaria di Marc Labelle, capace di
trasformare queste belle canzoni in futuri grandi classici di genere. Se
il buongiorno si vede dal mattino, sarà una splendida giornata di sole.
Rock on!
27
anni. I maledetti 27 anni di Kurt Cobain, Jim Morrison, Janis Joplin. I
maledetti 27 anni di Amy Winehouse, cometa capace di incendiare nella
notte il cuore di chiunque abbia avuto la fortuna di ascoltare la sua
voce, un bagliore di luce tanto fugace quanto luminoso e accecante, un
bagliore nell’infinitezza dell’universo.
Alle
15:53 del 23 luglio 2011, Amy Winehouse viene trovata morta nel letto
di casa sua al numero 30 di Camden Square. Non si conoscono le cause
della morte, l’autopsia ha escluso la presenza di sostanze stupefacenti,
confermando invece l’assunzione di alcool, ma non in un quantitativo
tale da giustificare il decesso. Alcool e droga. Sono questi i più
fedeli compagni di vita della piccola Amy, un talento immenso nel corpo
di una donna fragile, incapace di gestire la propria vita, debole e
remissiva di fronte ai fantasmi del proprio dolore, indifesa agli occhi
dei lupi voraci che la circondavano e che le hanno portato via
quell’esuberanza e quella felicità che, sempre, dovrebbe essere il
motore esistenziale di una giovane ragazza.
Amy
muore da sola, minata dalla dipendenza, logorata dall’insensibilità
altrui e soffocata da una richiesta d’amore che nessuno vuole o può
ascoltare. La sua breve vita è stata una battaglia da cui è uscita
sconfitta, senza appello, e quel cuore grande, lo stesso che, una volta,
la spinse a gettarsi in mare per salvare la vita di una donna travolta
dalle onde, ha smesso di battere, non a causa di quei fedeli compagni,
alcool e droga, ma per troppo dolore.
I rapporti burrascosi con il produttore Mark Ronson, che si vantò di essere lui l’artefice del successo di Back To Black, quelli con il padre padrone Mitch, che pubblica Amy, My Daugter,
sfruttando la morte della figlia a corpo ancora caldo, quelli con il
proprio corpo (la bulimia e la chirurgia estetica) e quelli, infine, con
l’amato ex marito Blake Fielder-Civil, compagno di sbronze e di sballi,
che non ha saputo amare e proteggere quella ragazza tanto dolce quanto
infelice, che non riusciva a dimenticarlo ("Amo ancora Blake ed ho
voglia di vivere con lui nella mia nuova casa. Non gli permetterò di
divorziare da me, lui è la versione maschile di me siamo fatti l'uno per
l'altra”), hanno segnato una traiettoria esiziale.
L’amore
salva la vita, ma Amy non si sentiva amata ed è morta. Perché l’amore è
un gioco a perdere: divampa come un incendio, ti fa sentire
onnipotente, ma prima o poi svanisce, portando via il senso di tutto, la
speranza e lo sguardo rivolto al futuro. “Per te ero una fiamma, un fuoco alto cinque piani, mentre arrivavi” canta Amy, con quell’incredibile voce da nera, che raggrumava un gusto agrodolce di tormento, whisky e passione.
L’amore, però, è un fiamma che divampa nelle intemperie, arde, riscalda, ma può spegnersi in un attimo: “L’amore
è un gioco a perdere, uno che vorrei non aver mai giocato, che casino
abbiamo combinato, E ora, il fotogramma finale. L'amore è un gioco a
perdere.”Si può lottare per amore, anche se sai che il destino è segnato, che il giocatore d’azzardo che hai di fronte (Know you're a gambling man) bara e non ti lascia speranza:” Anche
se combatto alla cieca, l'amore è un destino rassegnato, i ricordi mi
rovinano la mente, l’amore è un destino rassegnato, oltre le probabilità
inutili e deriso dagli dei”.
Amy
muore con questa certezza nel cuore: di aver dato tutto, quando ormai
tutto era inutile, di aver dedicato tutta se stessa a chi non ne voleva
più sapere, e di essere sola, vittima di una fato crudele e derisa dagli
dei.
Meraviglia in un disco di meraviglie (Rehab, You Know I’m Not Good, Back To Black, tra le altre), Love Is a Losing Game fu il quinto singolo estratto dal celebrato Back To Black,
ma nonostante la bellezza del brano è stato quello che ha venduto meno
nella carriera della Winehouse, arrivando solo alla piazza 33 delle
charts britanniche. Un riconoscimento postumo alla caratura, musicale e
poetica, della canzone arrivò, comunque, nel 2008, quando, a un corso di
letteratura dell’Università di Cambridge, le liriche del brano vennero
studiate per trovare similitudini con i poemi di Sir Walter Releigh,
figura storica e letteraria inglese di primissimo piano.
Amy
se n’è andata troppo presto, ma ha lasciato due dischi, che sono tra le
pagine più intense del pop soul del nuovo millennio, creando schiere di
artiste che hanno cercato di replicare il suo approccio unico e
inimitabile. Perché Amy ha cantato esattamente come ha vissuto:
strafatta di alcool e di passione, senza filtri e protezioni, camminando
sulla corda tesa di un’esistenza ostile, raccontando l’animo femminile
nel modo sincero, acuto e profondo di chi paga il proprio immenso
talento giocando, con coraggio, un gioco pericoloso e dall’esito
scontato. L’amore, se c’è, salva la vita, se non c’è, rende l’arte
eterna. Piccola, grande Amy.
Verso la fine dell’Ottocento, il rivoluzionario socialista francese Louis Auguste Blanqui coniò il termine "ni dieu ni maître"
- né dio né padrone - per descrivere il nuovo ordine mondiale che
immaginava. Da allora, quella frase è stata fatta propria da punk,
anarchici e femministe per descrivere la protesta e la frustrazione
globale verso le leggi che consentono l'ingiustizia sistemica nella
società occidentale. Sebbene sia diventata una dichiarazione passé, il
genere di cose che potresti trovare graffitata nel bagno di un locale,
la frase ancora oggi connota molteplici ideologie, presentandosi come
esplicito slogan di lotta al sistema e militanza politica.
E’ davvero sorprendente, quindi, che i Garbage abbiano intitolato il loro nuovo album, il primo in cinque anni, No Gods No Masters.
La storia ha, infatti, dimostrato che molti dei nostri eroi musicali
(vengono in mente come Billy Corgan, Morrissey e Sex Pistols) che hanno
fatto carriera predicando il pensiero radicale, spesso si sono
contraddetti nel privato, assumendo posizioni bigotte e reazionarie, ben
difficilmente condivisibili da chi, nella loro musica, aveva trovato
ragionamenti politici da sposare e fare propri.
Shirley
Manson, però, non ha tradito il proprio credo: vera icona gay,
sostenitrice di lunga data della comunità queer, la cantante dei Garbage
si è sempre schierata, restando coerente e seria, nonostante la sua
immagine pungente e trasgressiva (in tal senso, impossibile dimenticare
brani come Queer e Push It).
E’
per questo che, se oggi ammettere apertamente che il proprio album è
ispirato dai movimenti BLM e MeToo rischia di trasformarsi in una china
scivolosa che conduce all’autoreferenzialità e all’annacquamento dei
contenuti politici, No Gods No Masters palesa invece una forza e un'onestà difficili da negare, anche quando si poggia ai più tipici tropi della musica di protesta.
L'opener The Men Who Rule The World
inizia con il suono vorticoso di una slot machine, che lascia il posto a
una traccia synth-pop, in cui le crudeli realtà della misoginia, del
capitalismo e del fondamentalismo sono legate in una narrazione tanto
semplificata quanto efficace. Certo, una cantante che sussurra "soldi, soldi, soldi"
non sta esattamente percorrendo un terreno di novità rivoluzionarie, ma
la Manson risulta credibile e non banale, si percepisce che è
fermamente convinta di ciò che sta cantando.
Tutto
il disco funziona decisamente bene, in equilibrio fra elettronica e un
rock cupo e ansiogeno, tra modernità ed echi di un passato, qui tirato a
lucido, ad esempio, nel singolo Wolves, che ricorda i Garbage più vintage, o nel beat minaccioso e sensuale della splendida Godhead (canzone, questa, che farà saltare in piedi i fan dei Depeche Mode). Se Anonymous XXX,
stranamente infusa di sonorità calypso e incentrata sulle gioie del
sesso occasionale, è una rinfrescante tregua dal pesante contenuto dei
testi del resto dell'album, il cuore della scaletta è l’inquietante A Woman Destroyed,
notturna deriva industrial dai contorni filmici e apocalittici, che
racconta la vendetta di una donna che ha subito un torto dal suo amante.
Nel complesso, No Gods No Masters
si legge come un album sulle profonde frustrazioni che derivano dalla
nostra società: è intenso, cupo, profondo, anche se in alcuni momenti,
come nell’omaggio eighties di Flipping The Bird, riesce a suonare quasi leggero e arioso.
Ciò
che eleva il disco dalla media, che lo rende credibile nei suoi intenti
politici, non sono solo le belle canzoni (qui ce ne sono parecchie) ma
la palpabile emotività e il surplus di sincerità che permea musica e
testi. Non dichiarazioni vuote e vuoti slogan, ma uno sguardo
irriverente e un caustico j’accuse nei confronti di una società
eticamente avvizzita e irrimediabilmente in caduta libera. Brava
Shirley!
Durante
i giorni incerti e bui della pandemia, il chitarrista Esa Holopainen ha
sfruttato il periodo di inattività per portare a termine quell’album
solista che presumibilmente era in lavorazione da alcuni anni. E’ stato
necessario il lockdown, per allontanarsi dalla casa madre Amorphis,
raccogliere tante idee sparse nel tempo e farle confluire sotto il
moniker di Silver Lake by Esa holopainen, grazie anche all’aiuto di alcuni colleghi di livello provenienti dalla scena del metal scandinavo.
Se,
nel corso degli anni, gli Amorphis sono riusciti a creare un suono
immediatamente riconoscibile in quello che potremmo definire death metal
melodico, la domanda che sorge spontanea è quale direzione abbia preso
Esa con questo lavoro solista. La risposta è quella di un eclettico mix
di passaggi acustici e riff da batticuore, in cui confluiscono più
elementi che vanno dal folk al pop, dal metal al progressive. Il
risultato è più che buono, anche se alla fine il disco soffre un po' a
causa della mancanza di una direzione precisa.
La strumentale title track
apre il disco tra corde pizzicate e avvolgenti tastiere, come una danza
delicata, un librarsi arioso che evoca reminiscenza prog e che si
gonfia di vento in un crescendo maestoso. La successiva Sentiment vede alla voce Jonas Renkse (Katatonia) il cui timbro sensuale (che tornerà nella conclusiva Apprentice) fa da collante fra la band di provenienza e le tessiture progressive immaginate da Esa. Con Storm
la scaletta prende una direzione inaspettata con un brano pompato, in
cui l’enfasi pop delle strofe confluisce in uno ritornello trascinante e
orecchiabilissimo. La successiva Ray Of Light si muove per la
stessa strada segnata dalle influenze pop di Esa. Qui, alla voce
troviamo Einar Solberg dei Leprous, il cui timbro divinamente acuto
spinge verso il cielo un irresistibile ritornello, di quelli che è
praticamente impossibile levarsi dalla testa.
Due
canzoni davvero inusuali rispetto a ciò che ci si sarebbe potuto
aspettare dal chitarrista degli Amorphis e che probabilmente suoneranno
“stonate” alle orecchie dei fan della band finlandese. I quali, però,
troveranno in scaletta anche momenti più congeniali al proprio gusto: In Her Solitude,
che presenta proprio Tomi Joutsen alla voce (pulita e growl) è
assolutamente in linea con l’ultima produzione folk metal degli
Amorphis, mentre Bjorn "Speed" Strid dei Soilwork si cimenta nella
tiratissima (ma melodica), Promising Sun.
Se,
da un lato, è ammirevole l’intento di Esa di uscire dalla comfort zone,
come a voler dimostrare che può esserci vita ben oltre la casa madre,
dall’altro, è inevitabile qualche momento meno centrato e poco a fuoco.
Nulla d’imbarazzante, per carità, ma Fading Moon, che sfoggia
il cantato della sempre brillante Anneke Van Giersbergen, è un brano un
po' troppo prevedibile per brillare di luce propria, e Alkusointu, su cui si srotola lo spoken ipnotico dell’attore finlandese Vesa-Matti Loiri, suona come un fiacco riempitivo.
Nel complesso, però, Silver Lake
è un progetto encomiabile, che tiene bene per tutti quaranta minuti di
durata, senza, tuttavia, essere particolarmente rivoluzionario. La
produzione è, comunque, impeccabile, le ospitate vocali perfettamente in
sintonia con le canzoni e il lavoro di Esa alla chitarra è
semplicemente stellare. Tanto basta per consigliarlo ai fan degli
Amorphis ma anche a coloro che amano i suoni estremi mitigati dalla
melodia.
Come
smascherare coloro che esercitano il potere nell'ombra? Come vendicarsi
di chi ti ha inferto le ferite più sanguinose e umilianti? Ritroviamo
in questo nuovo romanzo Melchor Marín, il poliziotto appassionato di
libri protagonista di Terra Alta. Ad alcuni anni di distanza dalla morte
dell'amatissima moglie Olga, torna insieme alla figlia Cosette nella
sua Barcellona, dove dovrà affrontare l'indagine più spinosa e
difficile: qualcuno infatti tiene sotto ricatto la sindaca della città,
utilizzando un video hard che risale a molto tempo prima. Ancora segnato
dal profondo dolore per non aver trovato gli assassini di sua madre, ma
sempre guidato dalla sua rigorosa integrità morale, Melchor dovrà
capire se il ricatto faccia parte di un progetto più articolato di
destabilizzazione politica. E questo lo costringerà a entrare nelle
stanze del potere, dove regnano il cinismo, l'ambizione sfrenata e la
corruzione.
Dopo una serie fortunatissima di saggi romanzati, che hanno portato
Javier Cercas ad essere una delle penne spagnole più seguite anche a
livello internazionale, lo scrittore originario di Ibahernando ha virato
verso il genere thriller, pubblicando lo scorso anno l'acclamato Terra Alta.
Indipendenza
ne è l'ideale seguito, anche se in questo caso il contesto non è più
quello della Catalogna rurale ma quello della capitale, Barcellona. Qui,
la sindaca in carica viene ricattata da sconosciuti che minacciano di
rendere pubblico un vecchio video hard che la vede coinvolta, a meno che
non paghi una forte somma di denaro e non si dimetta dalla carica.
Melchor, viene chiamato a collaborare alle indagini, che, si scoprirà a
breve, coinvolgono la Barcellona bene e conducono a torbidi episodi risalenti a un lontano passato.
Se Terra Alta si concentrava maggiormente sulla trama gialla, rispecchiando alla perfezione le caratteristiche del genere, Indipendenza
allarga la visuale e, immaginando un epoca post covid di qualche anno
avanti nel futuro, si sofferma sullo scenario politico e sociale di un
paese, la Catalogna, allo sbando etico e vittima della sete di potere di
una classe dirigente corrotta.
La
narrazione, inoltre, riannoda i fili della vita di Melchor (l’omicidio
della madre, il rapporto con l’amico Vivales) e trasforma il romanzo
precedente in un evento reale nella finzione di quello presente, tutti
elementi, questi, che rendono la lettura più coinvolgente e lo
svolgimento meno prevedibile. Se, tuttavia, l'intreccio narrativo
funziona a meraviglia, denotando l'abilità di Cercas nel muoversi anche
al di fuori della propria comfort zone, il finale un po' troppo
frettoloso, lascia un po' di amaro in bocca, almeno per gli amanti del
thriller. Il quale, alla fine dei conti, risulta essere solo un pretesto
con cui lo scrittore spagnolo indaga sul tessuto sociale della sua
terra d’adozione, riflettendo sui moti indipendentisti (richiamati dal
titolo) e sulla morte degli ideali in politica. Un libro, quindi, che
resta sospeso a metà, come forse nelle intenzioni del suo autore, e che,
pur rimanendo piacevolissimo, non convince fino in fondo.
Nel 2013, il singolo Let Her Go
fece conoscere al mondo il fenomeno folk pop di Passenger (pseudonimo
di Michael David Rosenberg), un artista che, da quel momento in avanti,
non ha mai smesso di stare nelle parti alte delle classifiche inglesi (e
non solo). Successo raggiunto anche con quest’ultimo Songs For The Drunk And Broken Hearted,
album uscito a inizio 2021 (anche se era stato programmato per il 2020)
e nobilitato da fini benefici: tutti i profitti del disco, infatti,
sono stati devoluti all'Ecologi e all'Eden Reforestation Project,
un'organizzazione senza scopo di lucro che lavora nei paesi in via di
sviluppo per ricostruire i paesaggi naturali distrutti dalla
deforestazione. A prescindere da questi meritevoli intenti, il disco
palesa immediatamente i suoi contenuti a partire dal titolo, in tal
senso assai esplicito: cuori spezzati, sbronze per lenire il dolore, la
difficoltà di affrontare la vita e i suoi problemi.
Apre il disco Sword From The Stone,
canzone che riflette sui rapporti del songwriter con un amore del
passato e con la sua famiglia. Un opener agrodolce, specchio della
poetica di Passenger, a cui si allinea il resto dell'album, in cui
morbidi, orecchiabili e malinconici accompagnamenti per pianoforte e
chitarra fanno da sfondo a liriche cariche di intimismo e tristezza.
L’esposizione
è semplice, diretta, forse fin troppo esplicita, e le storie raccontate
hanno il dono della chiarezza e dell’universalità, perché possono
essere condivise dall’ascoltatore. Non siamo di fronte a canzoni
memorabili, di quelle che si fanno ricordare nel tempo, ma Passenger ha
l’indubbia qualità di saperle rendere credibili, grazie a una schietta
sincerità che aggiunge colore alle emozioni.
Il
ragazzo, piaccia o no, possiede un proprio stile, a cui è da sempre
fedele con invidiabile coerenza. Un tratto, questo, che se da un lato
può essere definito meritevole, dall’altro, rende la proposta assai
prevedibile e ripetitiva. Fortunatamente, la noia abita altrove, il
suono è ben rodato e il songwriting capace di qualche guizzo emotivo che
tiene a galla la barca: Suzanne è una canzone d'amore davvero struggente così come London In The Spring sa toccare le corde della malinconia, raccontandoci che si può trovare bellezza e felicità anche nelle cose più piccole, e Sandstorm, il brano più lungo del lotto, apre alle atmosfere umbratili di un cupa riflessione interiore sul fallimento.
Songs For The Drunk And Broken Hearted
non è certo uno di quei dischi che cambiano il corso degli eventi e che
entrerà nelle classifiche di fine anno. Tuttavia, possiede il fascino
di un prodotto artigianale confezionato con cura e onestà, oltre a
quella giusta dose di empatia, che rende indissolubile il legame
dell’artista coi propri fan.
C’era
un tempo, i più giovani di voi stenteranno a crederlo, in cui non
esistevano cellulari, computer, giochi elettronici e pay tv. Non
esistevano nemmeno Mediaset, La7, Dazn, Prime, Netfix e Sky, e i canali
televisivi si contavano sulla punta delle dita della mano di un monco:
Rai1, Rai2 e la Svizzera Italiana (solo successivamente si aggiunsero
Rai3 e Capodistria). Il palinsesto era quantitativamente modesto, ma la
qualità della programmazione era decisamente di ottimo livello. Poche
cose, ma di spessore. L’unicità dell’evento e la programmazione diluita
nel tempo, poi, creavano ricordi indelebili e contribuivano fattivamente
alla formazione di un giovane, cosa che oggi non avviene, considerate
l’inflazione della proposta, il martellamento mediatico e la velocità (e
voracità) del consumo. Quante serie tv sono in programmazione, oggi?
Così tante, che a volerle vedere tutte non basterebbero una decina di
vite. Di quante ci ricordiamo qualche mese dopo la messa in onda? Di
poche, quasi nessuna, oserei dire. E non perché sono brutte (alcune sono
decisamente avvincenti), semplicemente perché sono troppe.
Un
tempo, le serie tv si chiamavano telefilm, e prima degli anni ’80,
decennio in cui prese piede la televisione commerciale, erano un
appuntamento circoscritto ad orari prestabiliti. Rai, ore 19.20 tutti i
giorni e, poi, un diverso palinsesto la domenica, quando, ad esempio,
andava in onda l’irrinunciabile appuntamento con Attenti A Quei Due (era
il 1974). La serie, interpretata da due star del cinema internazionali
del livello di Tony Curtis e Roger Moore, era il più classico dei
polizieschi per famiglie: nessun efferato omicidio, nessuna scena
grandguignolesca, nessun genio della scientifica che risolve il caso
analizzando peli pubici, ma scazzottate, inseguimenti, qualche,
vagamente allusiva, chiappa al vento e soprattutto molto humor.
I
protagonisti erano il nobile inglese Brett Sinclair (interpretato dallo
007 Roger Moore), raffinato, colto, elegante e dotato di britannico
aplomb, e il ricco self made man americano Danny Wilde (uno strepitoso
Tony Curtis), che al contrario del suo partner era estroverso,
caciarone, rissoso e un po’ grezzo. La trama gialla, in realtà, era solo
un pretesto, e il telefilm si reggeva soprattutto
sull’interazione/contrapposizione tra Wilde e Sinclair, i cui antitetici
caratteri, il diverso ceto sociale di provenienza e gli opposti stili
di vita erano sempre motivo di scanzonato antagonismo e gustosi
siparietti.
Tutti
quelli che hanno seguito con passione il telefilm (che oggi potreste
trovare su qualche canale dedicato alla nostalgia di quegli anni), non
avranno dimenticato, e come mai potrebbero?, la leggendaria sigla
iniziale: le foto di Roger Moore e Tony Curtis che scorrono affiancate
una all’altra a riassumere i momenti salienti delle reciproche
esistenze, sulle note malinconiche di The Persuaders,
composizione a firma di John Barry. Un nome, questo, che, se non siete
addetti ai lavori, vi dirà poco, salvo poi scoprire che lo straordinario
compositore britannico (ci ha lasciati dieci anni fa), oltre a The Persuaders,
compose anche la musica per dodici film della serie di James Bond e
vinse ben cinque Oscar per le migliori colonne sonore: due nel 1967 per
Nata Libera, uno nel 1969 per Il Leone D’Inverno, uno nel 1986 per La
Mia Africa e uno, l’ultimo, nel 1991, per Balla Coi Lupi.
Scritta da Barry nel 1971, The Persuaders
venne registrata utilizzando il Moog, sistema di sintetizzatori molto
in voga in quel periodo (chiedere a Emerson Lake & Palmer per
conferma), e il Cimbalon, strumento musicale a corde battute o
pizzicate, originario dell’Ungheria. Una strumentazione anomale per una
canzone che fu un singolo di successo in molti paesi europei (tra cui
Francia, Germania e Paesi Bassi), contribuendo allo status di culto
della serie in Europa. Una curiosità: il lato B del 45 giri conteneva
un’altra canzone di Barry, The Girl with the Sun in Her Hair, un altro brano strumentale, che venne utilizzato come jingle per lo spot televisivo dello shampoo Sunsilk.
Dai lontani esordi come duo fino a questo nuovo Blue Weekend,
la strada intrapresa dai Wolf Alice li ha portati a una sempre
crescente consapevolezza artistica, con cui si sono conquistati, disco
dopo disco, la stima della critica e l’affetto dei fan. Il loro album di
debutto del 2015 My Love Is Cool era salito al secondo posto
nelle classifiche degli album del Regno Unito, così come il loro secondo
album Visions of a Life, che ha anche vinto lo Hyundai Mercury Prize
del 2018. Un carriera relativamente breve (la band è in circolazione da
un decennio) ma ricca di successi che hanno alimentato un notevole hype,
anche oggi, nonostante quattro anni di silenzio, decisamente in
crescita.
Inevitabile,
quindi, che le aspettative per il loro ultimo album, Blue Weekend,
fossero particolarmente alte e spinte, soprattutto, dalla curiosità di
vedere se il buon lavoro fatto fino ad ora confermasse il loro status di
una delle migliori band britanniche oggi in circolazione.
Per
lavorare al disco, la band si è trasferita in un Airbnb nel Somerset,
luogo in cui Ellie Rowsell (voce), Joff Oddie (chitarra), Theo Ellis
(basso) and Joel Amey (batteria), hanno riacceso i motori di una
macchina ferma da troppo tempo e si sono messi al lavoro su una serie di
vecchi demo, che sono stati il punto di partenza per le nuove
composizioni.
Il
risultato, ancora una volta, è ottimo. I Wolf Alice non hanno mai avuto
paura di mescolare i generi all’interno della stessa scaletta (dal pop
al punk, dall'indie rock al folk), ma in Blue Weekend lo fanno con
un'audacia che dimostra un controllo totale sul suono, che ondeggia
senza il minimo sforzo dal languido shoegaze folk di Safe From Heartbreak (if you never fall in love) alla furia punk della graffiante Play the Greatest Hits,
senza che il disco perda un briciolo di coesione e coerenza. Alla base
di tutto ciò ci sono valori di produzione davvero raffinati, che
conferiscono all'album un suono ambizioso e cinematografico, che si
adatta perfettamente al materiale proposto.
Citare
un brano invece di un altro sarebbe fare un torto a un lavoro che
risulta brillante dalla prima e ultima traccia, ma se proprio si deve, i
languori dream pop di The Beach II, che chiude mirabilmente l'album, e l'indie rock ansiogeno di Smile
sono momenti eccelsi, che sottolineano la caratura di una band che
sembra essere arrivata allo snodo decisivo della propria carriera.
Non è un caso che proprio in Smile la Rowsell pronunci la frase "Sono quello che sono e sono bravo a farlo".
Un’affermazione che, lungi dal denotare arroganza, suggerisce invece la
consapevolezza di una band dalle idee chiarissime, che sa da dove è
venuta e sa esattamente dove vuole andare. I Wolf Alice posso vantarsi, e
a ragione, di essere una band dal profilo originale, che ha saputo
creare un suono davvero unico, che oggi plasma con assoluta
autorevolezza. Blue Weekend è, quindi, un disco ambizioso che
raggiunge tutti gli obbiettivi che si è prefisso: emozionare, stupire,
divertire. Altamente raccomandato.
Il
Mull Of Kintyre è un lembo di terra situato nella parte sud ovest della
lunga penisola del Kintyre, in Scozia. Una terra in parte ancora
selvaggia, che attrare per la dicotomia cromatica fra il verde smeraldo
dell’erba e il vivido blu del mare. Un faro storico, qualche casa, un
panorama mozzafiato e di fronte, dall’altra parte del mare, l’Irlanda,
spesso visibile a occhio nudo. Fatevi un giro in rete e date un’occhiata
alle foto di questo luogo incantato, e ditemi se non è la meta ideale
in cui rifugiarsi per sfuggire alla rumorosa frenesia del mondo, per
ritrovare la pace interiore e un nuovo, più profondo, rapporto con la
natura.
La
pensava in questo modo anche Paul McCartney, che in questa zona
pittoresca aveva una casa e uno studio di registrazione fin dalla fine
degli anni ’60. Nel Mull Of Kintyre, Paul non solo otteneva
l’ispirazione per comporre, ma anche quel senso di famigliarità e
tranquillità di cui ogni essere umano ha bisogno per trovare il proprio
equilibrio interiore. Un luogo, questo, che McCartney amava al tal punto
da ritenere insopportabile l’idea di allontanarsi per gli impegni
derivanti dalla sua vita di musicista, un posto in cui, se fosse stato
possibile, avrebbe trascorso ogni sitante della propria esistenza.
Nasce proprio da questo amore e da questo senso di appartenenza, Mull Of Kintyre,
una tra le più celebri canzoni pubblicate dall’ex Fab Four sotto
l’egida Wings. La canzone vide la luce nel 1977, durante una pausa dalle
registrazioni per il nuovo album, London Town, a causa
dell’avanzato stato di gravidanza di Linda. Il brano, scritto da Paul e
Denny Laine, chitarrista e bassista, oltre che unico membro stabile dei
Wings, fu registrato ad agosto in Scozia, e poi rimaneggiato in ottobre
ad Abbey Road, per effettuare alcune sovraincisioni, tra cui le
cornamuse della banda locale di Kintyre.
La canzone, che altro non è se non una languida ballata folk in cui Paul dichiara tutto il suo amore per Mull Of Kintyre (Oh mist rolling in from the sea My desire is always to be here Oh Mull of Kintyre)
ebbe un inaspettato e clamoroso successo in Gran Bretagna, conquistando
la prima piazza in classifica. Durante il periodo natalizio, ci fu una
vera e propria corsa all’acquisto del 45 giri, che restò per nove
settimane in cima alle charts e vendette due milioni di copie nella sola
Gran Bretagna, diventando il singolo più venduto di tutti i tempi fino
al 1984, quando Do they Know It’s Christmas? Della Band Aid gli
tolse il primato. La canzone, invece, fu un flop negli Stati Uniti,
dove la visione bucolica di Paul non ebbe l’appeal sperato a differenza
del lato B del 45 giri, Girls’ School, che trovò ottimi riscontri nell’airplay radiofonico americano.
Un
disco di denuncia, di rabbia, di militanza, un grido di libertà contro
il colonialismo, lo sfruttamento sfrenato delle risorse, il
depauperamento di un popolo, umiliato, derubato, massacrato. E’ la
copertina dell’album che lo esplicita senza mezzi termini, prima ancora
di ascoltare una sola nota di Afrique Victime, sesto lavoro in
studio del musicista tuareg, Mdou Moctar. Un rapace artiglia mamma
Africa piangente, dietro un bagliore, che forse rappresenta la speranza o
forse è semplicemente il luccichio di una gemma ghermita. In una terra
ferita brutalmente da rapine minerarie internazionali e dalla mano
feroce del terrore fondamentalista, fare musica non è semplicemente
scrivere canzoni, ma lottare per dare voce a un popolo e raccontare una
tragedia troppo spesso nascosta agli occhi dell’opinione pubblica.
Non
solo, però. Questo è un disco che ingenera diverse riflessioni, che
emoziona e tocca il cuore, ma spinge a ragionare: sulla musica e
sull’Uomo.
Mdou
Moctar è stato spesso definito il Jimi Hendrix del deserto,
definizione, questa, abbastanza pigra e prevedibile, ma che suggerisce,
tuttavia, la stretta connessione che esiste tra due realtà musicali,
geograficamente distanti, ma indissolubilmente legate dal medesimo dna. Afrique Victime,
a prescindere dai suoi sviscerati contenuti politici, è un disco in cui
due culture convergono, palesando la stretta consanguineità: da un
lato, le sonorità tuareg e il blues, che ha avuto i natali proprio in
questa terra, dall’altro, una decisa componente rock, che altro non è se
non l’evoluzione occidentale di quella cultura ancestrale, qui
restituita alle sue origini, dopo un lungo processo di contaminazione.
Afrique Victime si apre con Chismiten:
venti secondi di quasi silenzio, passi che si avvicinano a un
amplificatore, poco prima che parta un selvaggio lick di chitarra, e
Moctar e la sua band si fondono rapidamente in un trascinante groove,
ondeggiante e sinuoso come le movenze di un serpente incantato. Ed è
proprio questa attenzione al ritmo, questa oscillazione continua, ad
essere il filo conduttore di una scaletta che spinge a ballare
voluttuosamente sulle note di Asdikte Akal, che tesse trame acustiche potenti e maestose (Tala Tannan e Layla), che pompa decibel e drammaticità nella title track e che si chiude nel misticismo sognante di Bismilahi Atagah.
Con Afrique Victime,
Moctar racconta la propria terra attraverso un linguaggio che è
scoperta e sorpresa, ma che, al contempo, suggerisce anche una
vicinanza, per ricordarci il debito, nei confronti dell'Africa, di quasi
tutta la musica moderna. Dischi come questo sono una porta su un futuro
immaginario, l’ipotesi di un domani migliore, l’utopia di una fusione,
in cui la connessione globale possa far sì che un chitarrista del Sahara
possegga lo stesso appeal culturale di una pop star occidentale.
Questo, soprattutto, è un disco capace di lenire l'anima con la bellezza
e aprire gli occhi agli scettici su ciò che la musica, la musica
veramente buona, può fare per ciascuno di noi, non importa da dove essa
provenga. In queste canzoni, le differenti estrazioni sociali e il
colore della nostra pelle svaniscono di fronte a un’emozione che
dovrebbe scuotere qualsiasi essere vivente nel profondo. E unire, in un
sogno di fratellanza condiviso.
In uscita per BMG il 3 settembre 2021, l'album composto da 18 tracce presenta la Ronnie Wood Band insieme a Mick Taylor e altri incredibili ospiti speciali come Bobby Womack, Mick Hucknall e Paul Weller, e rende omaggio a uno degli eroi musicali che più ha influenzato Ronnie, il pioniere del blues elettrico del Mississippi Jimmy Reed.
L'album è stato registrato dal vivo in una serata memorabile alla Royal Albert Hall il 1° novembre 2013. Contiene brani straordinari tra cui Good Lover e Ghost of A Man. Con un artwork unico appositamente creato da Ronnie, Mr Luck
sarà disponibile in digitale, su CD, in vinile e in una bellissima
edizione limitata con vinile colorato in doppia tonalità blu fumo.
Quando il chitarrista autodidatta Eddie Taylor insegnò tutto ciò che sapeva del suonare la chitarra al suo amico Jimmy Reed,
sicuramente non poteva immaginare l'effetto che ciò avrebbe avuto per
la scena blues di Chicago. Per questo, anche se nella sua carriera ha
accompagnato musicisti come John Lee Hooker, Tylor è ricordato soprattutto per il suo lavoro con il suo ex studente.
La coincidenza ha voluto che nel 1974 un altro Taylor, Mick, facesse posto a Ronnie Wood nei Rolling Stones,
aprendo la strada a una amicizia e una collaborazione proficua
per questi due celebri chitarristi. Il culmine di tutto ciò è stata la
presenza di Taylor nella Ronnie Wood Band alla Royal Albert Hall per il Bluesfest del 2013, dove è stato suonato l'ormai leggendario set che avrebbe generato questa registrazione.
A proposito di Mr Luck, Ronnie commenta:
"Jimmy
Reed è stato una delle prime influenze per i Rolling Stones e per tutte
le band che amano il blues americano fino ai giorni nostri. È un onore
per me avere l'opportunità di celebrare la sua vita e la sua eredità con
questo tributo"
Questo album segna il secondo capitolo di una trilogia di album
speciali e personali di Wood con la sua band, che celebrano gli eroi
musicali di Ronnie. Il primo album, Mad Lad, ha esplorato il lavoro di Chuck Berry e ha rappresentatouna
commemorazione struggente dopo la scomparsa di Berry poco più di due
anni fa. Ronnie è stato in tour con Berry ed è stato suo fan per tutta
la vita.
Quando
i London Grammar si sono affacciati per la prima volta sulla scena
musicale, fortemente saturata, di quasi un decennio fa, le loro ballate
pop dal mood fortemente emotivo hanno spinto la critica a spendere
paragoni con artisti come XX e Florence and the Machine, oltre ad
attirare fin da subito l’attenzione del pubblico mainstream.
Contrassegnato dalla gamma vocale dinamica di Hannah Reid, il trio
britannico si è distinto dai propri contemporanei non solo grazie alla
natura accelerata dell'hype (erano in prima fila per l'ambito Mercury
Prize prima di pubblicare il loro debutto nel 2013, If You Wait), ma soprattutto perché la loro musica mostrava un’invidiabile freschezza.
Con il loro secondo album, Truth Is a Beautiful Thing
del 2017, hanno mantenuto fede alle premesse (e promesse) di una musica
pop elegante e di gran classe, anche se in quel caso una produzione più
ambiziosa aveva tolto un po' di vitalità alle canzoni in scaletta.
Oggi, Californian Soil,
li vede modificare leggermente il sound per suggerire ulteriormente la
portata delle loro ambizioni musicali, con risultati anche in questo
caso, però, non sempre convincenti. I London Grammar esplicitano la loro
volontà di esplorare nuovi territori già a partire dalla title track: c'è un diverso ed evidente spessore nell’impianto strumentale del brano, che manca, invece, in alcuni momenti della scaletta.
Infatti, nel complesso, Californian Soil
soffre, in qualche caso, proprio di mancanza di profondità: è chiaro
che la potente voce della Reid non ha perso un grammo del suo fascino,
ma non può essere sempre il paravento per coprire le lacune aperte da un
songwriting talvolta un po' debole e da una produzione che, qui e là,
palesa qualche inciampo.
Se
questi sono i difetti, e lo dico a prescindere dal mio gusto personale,
che mi ha spinto ad ascoltare il disco in loop per un’intera settimana,
California Soil si mantiene, tuttavia, su buoni livelli per
tutta la sua durata, regalando anche momenti di abbagliante bellezza. La
predilezione della band per i ritmi trip-hop e i paesaggi sonori
cinematografici, molto amati dai Massive Attack, rimane un intatto
marchio di fabbrica e la straordinaria voce di Reid, che è sempre stata
al centro del suono della band, continua a risuonare potente e
affascinante come sempre.
E’
indubbio, inoltre, che il taglio dato alle canzoni sia, nello
specifico, ancora più pop, cosa che nel complesso funziona bene, come
avviene, ad esempio tra beat e approccio sinfonico nella splendida Lose Your Head o nel drammatico crescendo melodico di Lord It’s A Feeling.
Pur con un andamento altalenante, California Soil
possiede, quindi, un fascino etereo e riesce a toccare le corde
dell’emozione grazie a una prova maiuscola della Reid, la quale riversa
nelle liriche e nel cantato il proprio pathos interiore. Un tormento di
fondo palpabile in America, la canzone che chiude il disco e
che vince la palma del miglior brano del lotto: l’America come metafora
di sogni da inseguire, sogni destinati a non realizzarsi e a restare
chimere, forse perché, in primo luogo, non ci appartengono (“Tutto
il nostro tempo a caccia dell'America/Ma lei non ha mai avuto una casa
per me/ Tutto il nostro tempo inseguendo un sogno/Un sogno che non
significava niente per me”).
Se tutto il disco fosse di questo livello, staremmo parlando di una delle prove migliori dell’anno. Invece, pur promuovendolo, California Soil
resta il compito ben fatto di una band che potrebbe aspirare al massimo
dei voti, ma non riesce mai a fare il vero salto di qualità. Non credo
sia un problema strutturale: quando azzeccano la canzone, i London
Grammar svettano sulla massa con estrema facilità. Forse, il vero
problema, è il freno a mano tirato, la mancanza di coraggio con cui la
band affida al cantato di Hannah Reid le sorti del proprio lavoro, senza
cercare soluzioni alternative alla splendida voce del loro leader.
Qualcuno sostiene che Heartbeat City
(1984) sia in assoluto la miglior prova dei Cars, e senza voler
togliere nulla ai lavori precedenti, che vendono bene e piazzano
numerosi singoli nelle chart statunitensi, probabilmente è così. Un
disco, questo, che racchiude la summa del pensiero musicale del leader,
il compianto Ric Ocasek: fondere l’imperante suono new wave con un pop
rock dagli arrangiamenti impeccabili e costruito sulla perfetta simbiosi
fra chitarre agli estrogeni e vivaci, coloratissime tastiere.
L’album, prodotto con la collaborazione di Robert John “Mutt” Lange (che l’anno precedente aveva messo mano a Pyromania
dei Def Leppard), vende benissimo e si piazza alla posizione numero di 3
di Billboard 200, grazie al tiro di un pugno di singoli irresistibili: You Might Think, Magic e Drive.
E’ soprattutto quest’ultima a fare, come si dice, il botto, risultando
il singolo dei Cars più venduto in assoluto, raggiungendo la posizione
numero tre della Billboard Hot 100, la numero cinque nel Regno Unito, la
numero quattro nella Germania occidentale, la numero sei in Canada e la
numero tre in Irlanda. Senza dimenticare, poi, che Drive
consente ai Cars di farsi conoscere anche in Italia, paese in cui la
band capitanata da Ocasek, fino ad allora, viveva nella nicchia di pochi
appassionati.
A prescindere dal notevole successo commerciale, resta il fatto che Drive
è il classico evergreen, una canzone senza tempo, che riesce a
emozionare anche oggi, nonostante l’utilizzo dei sintetizzatori
rispecchi clamorosamente il suono dell’epoca in cui è stata concepita.
Una ballata elegante e impeccabilmente arrangiata, che resterà eterna
per la forte tensione romantica e drammatica che la pervade.
Drive è,
infatti, una canzone che parla d’amore, ma di un amore finito, di un
lutto affettivo che ingenera dubbi e disillusione. E’ l’amante ferito a
parlare, anche se potrebbe benissimo essere il contrario (alla voce c’è
il bassista della band, Benjamin Orr), che si rivolge alla propria
amata, ponendo una serie d’interrogativi destinati a rimanere senza
risposta: “Chi ti dirà quando sarà troppo tardi? Chi ti dirà che le
cose non sono così grandiose? Non puoi andare avanti pensando che niente
sia sbagliato. Chi ti riaccompagnerà a casa, stanotte? Chi ti rialzerà
quando cadrai? Chi alzerà la cornetta quando chiamerai? Chi presterà
attenzione ai tuoi sogni? Chi ti tapperà le orecchie quando urlerai?”.
Ed è proprio questa serie reiterata di domande, l’escamotage letterario
dell’interrogazione retorica, a rendere il brano così carico di pathos e
così melodrammatico nei suoi intenti romantici. Perché, è del tutto
evidente, che ciò che sottende alle domande, è l’impossibilità di
ricostruire un amore perduto per sempre, eterno solo nei quattro minuti
della durata della canzone.
Questo
brano, così malinconico e triste, fu, poi, utilizzato l’anno successivo
al Live Aid di Londra, come sottofondo musicale per un drammatico video
sulle esiziali conseguenze della carestia in Etiopia. Dopo l’evento, la
canzone ritornò a scalare le classifiche inglesi, attestandosi alla
quarta posizione e fruttando ai Cars la bellezza di 160.000 sterline,
tutte devolute alla causa dallo stesso Ocasek.
Un’ultima curiosità. Nel bel video clip di Drive,
girato dall’attore Timoty Hutton, compare l'allora diciottenne modella e
attrice Paulina Porizkova, che, di lì a poco, sarebbe diventata la
moglie di Ric Ocasek.
Il 2021 è un anno decisamente denso di novità per Ricky Warwick. Prima, ha pubblicato When Life Was Hard And Fast,
disco solista che ha riscosso parecchi consensi di pubblico e critica,
poi, ha messo le mani a vecchio materiale, per una ricca ristampa di Powertrippin’, terzo e celebratissimo album degli Almighty, la band di cui è leader da più di trent’anni.
Il seguito di Fire & Love del 1989 e Soul Destruction
del 1991, vide la luce nell’aprile del 1993, fu l’ultimo pubblicato per
l’etichetta Polydor, e sancì l’ingresso nella line up del chitarrista
Pete Friesen, che aveva sostituito il membro fondatore Tantrum (a fianco
di Warwick c’erano anche Stump Monro alla batteria e Floyd London al
basso). Powertrippin’ segna una svolta non da poco nella storia
della band: è il primo album che schizza nella top ten britannica (alla
quinta piazza per la precisione), grazie anche alla popolarità
derivante dal tour degli Almighty come spalla degli Iron Maiden, ed è il
disco che si smarca decisamente dei due lavori precedenti, grazie anche
al songwriting e all’impronta di Friesen, che spinge il suono nelle
braccia del Seattle Sound.
L’album,
in tal senso, è figlio della sua epoca, rivisitazione in chiave europea
di quel grunge che, nel 1993, ha già affievolito la sua spinta
creativa, pur essendo ancora al centro del music business. Gli Almighty
si schierano dalla parte di chi quel suono lo stritolava nella morsa di
pesanti tenaglie metal, tanto che gli accostamenti più immediati, anche
all’epoca, furono con band come gli Alice In Chains (l’iniziale e oscura
Addiction sembra uscire dalla penna di Jerry Cantrell) e i Gruntruck di Push.
Roccioso,
brutale, violento, poco incline a cercare compromessi con la melodia e
pronto ad abbandonarsi a quelle accelerate punk, da sempre tratto
distintivo della band (la title track è strettamente imparentata alla furia distruttiva dei Motorhead), Powertrippin
è una forsennata cavalcata metal trainata dai riff siderurgici di
Friesen e dalla voce petrosa di uno scatenato Warwick. Non c’è quasi un
attimo di pausa, e i padiglioni auricolari si salvano dallo sconquasso
generale solo grazie a Jesus Loves You… But I Don’t (un titolo, un programma), ispida ballata che procede per accumulo elettrico fino al deragliamento finale.
La
reissue del disco, perfettamente rimasterizzato, contiene anche un
secondo cd ricco di curiosità. Oltre ai singoli tratti da Powertrippin’,
Addiction, Over The Edge e Out Of Season, questa riedizione deluxe include le B-side Blind, Bodies (proprio quella dei Sex Pistols), Insomnia, In A Rut (cover dei The Ruts) e Fuckin' Up (brano preso dal songbook di Neil Young). Le versioni live di Takin' Hold, Jesus Loves You...But I Don't e Powertrippin'
testimoniano quanto potenti e devastanti siano sempre stati gli
Almighty una volta saliti sul palco. Il disco bonus include anche le
versioni demo di Free 'N' Easy e la title track di Soul Destruction,
che non è mai stata registrata ufficialmente e non era apparsa nella
scaletta dell'album originale. Da segnalare anche una versione acustica
di Rockin' In The Free World di Neil Young, ulteriore chicca di una
ristampa vivamente consigliata a tutti gli amanti dei suoni estremi.
Eva
Narcissus Boyd, meglio conosciuta come Little Eva, è stata, negli anni
’60, una cantante pop di successo, nota soprattutto per un brano, The Loco – Motion,
che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo ascoltato. Una hit da
un milione di copie vendute, che nel 1962, arrivò prima in classifica
negli Stati Uniti e che nel 1988 tornò nuovamente agli onori delle
cronache, grazie all’interpretazione in chiave dance di Kylie Minogue.
Per Eva, fu l’inizio di una carriera che durò per tutto il restante
decennio, fino a quando, nel 1971, la Boyd si ritirò dalle scene, a soli
ventotto anni, senza aver guadagnato, si dice, il becco di un
quattrino.
Prima
di arrivare al successo, questa giovane cantante di colore, proveniente
dalla North Carolina, sbarcò il lunario, facendo i più disparati
lavori, tra i quali quello di babysitter a casa della coppia di
cantautori Carole King e Gerry Goffin (quelli che, tra l’altro,
scrissero per lei The Loco-Motion).
E
qui, inizia la nostra storia. Perché Eva, che è una ragazza semplice e
solare e si conquista da subito la fiducia e l’affetto delle due stelle
del music business, spesso si presenta al lavoro con dei lividi. Alle
domande insistenti dei due, Eva ammette candidamente che il suo
boyfriend dell’epoca la prende a sberle. La King e Goffin, venuti a
conoscenza della cosa, spronano la ragazza (che ai tempi non aveva
nemmeno vent’anni) a denunciare il fidanzato alla polizia, ma visto il
diniego di Eva, le chiedono come possa sopportare di essere maltrattata
in questo modo. Eva li guarda stranita e, come se fosse la cosa più
normale del mondo, risponde: “E’ vero mi ha colpito. Ma lui mi picchia solo per dimostrarmi quanto mi ama”.
Dopo l’iniziale sgomento, i due cantautori ripensarono spesso alla risposta della ragazza, finché quella frase, “Mi ha colpito” (He Hit Me), divenne lo spunto per scrivere una canzone. Nasce così He Hit Me (And It Felt Like A Kiss),
un brano il cui testo, senza bisogno di essere accanite femministe,
oggi come allora, fa letteralmente rabbrividire. Perché quel brano,
scritto probabilmente con le migliori intenzioni (la King, dichiarò
successivamente, di essere stata anche lei vittima di abusi domestici –
ma non da Goffin), diventava, in buona sostanza, una sorta di
benedizione a tutti quei vigliacchi che maltrattavano le proprie donne.
Il verso centrale, in tal senso, lascia sgomenti: “Mi ha colpito E
sembrava un bacio. Mi ha colpito E sapevo che mi amavi. Se non gli
importasse di me, Non avrei mai potuto farlo arrabbiare. Ma mi ha
colpito Ed ero contenta”. E non ci vuole una sensibilità da poeta
per comprendere quanto queste parole, che giustificano un atto ignobile,
siano raccapriccianti.
Non
solo. Indovinate un po'? A produrre e ad arrangiare la canzone fu Phil
Spector, il geniale produttore, che di abusi coniugali e violenza sulle
donne non era secondo a nessuno. L’inventore di quello che fu definito “wall of sound”,
infatti, oltre che per la propria arte, è passato alla storia anche per
i rapporti a dir poco burrascosi con le proprie compagne, culminati,
nel febbraio del 2003, con la condanna per l’omicidio dell’attrice Lana
Clarkson. Il vertice di un escalation iniziata, però, nel 1968, quando
Spector sposò Veronica “Ronnie” Bennett, cantante delle Ronettes, girl
group statunitense, divenuto famoso grazie proprio al produttore
(ricordate Be My Baby?). Un rapporto, quello tra Ronnie e Phil,
caratterizzato dalla gelosia patologica di Spector, il quale costrinse
la consorte a vivere reclusa in casa, sottoposta alle sue grottesche
bizzarrie (arrivò a chiuderla in un armadio, a nascondere tutte le sue
scarpe in modo che non potesse fuggire e addirittura a far costruire una
bara d'oro con un coperchio di vetro in cui minacciò di rinchiuderla
dopo averla uccisa, nel caso l'avesse lasciato).
Spector,
che era un violento narcisista con il vizietto dell’alcol e delle armi
da fuoco, aveva tuttavia un talento inarrivabile, capace, negli anni
d’oro della sua carriera, di fargli scrivere, arrangiare e produttore un
filotto di straordinarie hit. E’ fuori di dubbio che Spector riuscisse a
sentire la musica nel profondo, a cogliere l’essenza di una canzone e a
cavarne il meglio. Così, affidò He Hit Me alle Crystals,
gruppo r’n’b tutto al femminile lanciato dalla sua etichetta, la
Philles, e arrangiò il brano come forse nessuno se l’aspettava. Avrebbe
potuto giocare con l’ironia, ma non lo fece. Il testo era vergognoso e
giustificava la violenza sulle donne. Ecco allora l’intuizione: un basso
cupissimo introduce la voce solista (e depressa) di Barbara Alston in
una cornice funerea di tamburi e archi taglienti, mentre, in sottofondo,
come un coro greco, le altre tre componenti trillano beatamente la loro
convinzione che il ragazzo non avesse fatto nulla di male. Tutto
inquietante, ambiguo, ma geniale.
Artisticamente
ineccepibile, la canzone, però, non ebbe il successo sperato: dopo i
primi passaggi in radio, la protesta degli ascoltatori crebbe a
dismisura, tanto che il brano lentamente scomparve dall’airplay, per
perdersi, giustamente, nell’oblio.