La pena di morte può trovare asilo in un consesso civile? Può lo Stato sostituirsi a Dio o alla natura e punire con la morte l’autore di un crimine, soprattutto se efferato? Quali e quanti reati deve aver commesso un uomo per essere ucciso? Può, in definitiva, la vendetta, perché di vendetta si tratta, essere codificata dalle leggi di un governo democratico e trovare applicazione secondo normative cristallizzate dall’ordinamento?
Il tema, ovviamente, è scottante, e le domande, poc’anzi formulate, spesso aprono ad appassionati dibattiti, non tanto da noi, dove fortunatamente la pena di morte non esiste, quanto negli Stati Uniti, paese in cui la discussione torna periodicamente all’attenzione dell’opinione pubblica. Molti scrittori, artisti e musicisti, da sempre, si sono schierati apertamente contro questa barbarie, alcuni mettendo a disposizione la propria arte per supportare una battaglia civile che, si spera, prima o poi, porti all’abolizione della pena capitale in tutto il mondo. Sull’argomento, sono state scritte molte canzoni da artisti del calibro di Bob Dylan, Johnny Cash, Nick Cave e non ultimo, Steve Earle, songwriter da sempre schierato dalla parte degli ultimi e dei perdenti, e, musicalmente, tramite fra la tradizione country nashvilliana e l’aggressività e l’urgenza del rock’n’roll.
Nel suo quarto album, Hard Way, pubblicato nel 1990, Earle inserisce una canzone con cui si schiera apertamente e senza mezzi termini contro la pena di morte. Lo fa raccontando la storia di un ragazzo dell’Oklahoma, uno di quei reietti senza patria, senza memoria e senza speranza (“Mi chiamo Billy Austin, ho ventinove anni, Sono nato in Oklahoma, Per un quarto Cherokee mi dicono. Non ricordo l'Oklahoma, è passato tanto tempo da quando sono andato via, mi sembra di essere sempre stato in carcere, di essere sempre stato solo”), che vive di espedienti e di piccoli reati, senza consapevolezza e cattiveria, solo per necessità (“Non volevo fare male a nessuno, non avrei mai pensato di passare quel limite”).
Un giorno, però, una rapina va storta e ci scappa il morto: “Ho rapinato un distributore, come avevo già fatto altre cento volte. Il ragazzo ha fatto come gli dicevo, si è steso faccia a terra sul pavimento penso che non saprò mai cos'è stato, a farmi voltare e tornare indietro. Lo sparo risuonò come il tuono, le orecchie mi rintoccavano come una campana, non accorse nessuno, così chiamai io stesso la polizia”.
Inizia così, il calvario giudiziario di Billy, arrestato, sommariamente processato e difeso da un avvocato inetto (“L'avvocato d'ufficio, non è riuscito neanche a guardarmi negli occhi, si è alzato ha chiuso la borsa e se n'è andato quando mi hanno condannato a morte”). Quindi, la condanna e, poi, terribile, logorante, l’attesa dell’esecuzione.
Una storia di disperazione ed emarginazione, cruda come ce ne sono tante, che apre alla seconda parte della canzone, in cui le domande si fanno stringenti e le risposte non più procrastinabili. Billy è rassegnato e sconfitto dal suo ingiusto destino, comprende il male che ha fatto e si arrende all’inevitabile: “Ora l'attesa è finita, e mentre l'ora finale si avvicina, non vi verrò a dire che non merito di morire”. A questo punto, Earle innesca la riflessione etica e politica sulla pena capitale, perché la giustizia è sempre a senso unico quando i colpevoli sono gli ultimi (“Ma ci sono ventisette uomini qui, Per la maggior parte neri, scuri e poveri, La maggior parte sono colpevoli, ma chi siete voi per esserne sicuri?”) perché la condanna a morte, così fredda e spersonalizzata, imporrebbe quanto meno un’assunzione di responsabilità (“E quando verrà il predicatore a prendermi, e mi raseranno la testa, ce la faresti a fare con me quella lunga passeggiata, sapendo che alla fine aspetta l'inferno? Te la sentiresti di tirare tu stesso la leva con mano ferma e sicura?”), perché non sempre, o forse mai, chi giudica ha davvero la coscienza pulita ed è senza peccato (“E te la sentiresti di dire a te stesso che sei migliore di me?”).
Lo stesso Earle, a proposito della canzone, ebbe in seguito a dire: “La pena di morte è un argomento che salta fuori sempre, quando sono in una stanza con almeno altre due o tre persone…volevo fare sul tema una canzone tutta mia, con cui colpire la gente dritta alla testa. Ognuno di noi deve prendersi le sue responsabilità per quelli che vengono giustiziati, se qualche innocente venisse giustiziato per sbaglio ne saremmo tutti responsabili.” E ancora: “La maggior parte della gente che aspetta di essere giustiziata in America non ha né mezzi, né influenza. Forse non c'è nessun innocente lì in mezzo, ma ciò non vuoi dire che non sia un sistema barbaro, e se poi ammazzi un innocente, come fai a tornare indietro?”.
Dal nostro punto di vista, impossibile dargli torto.
Blackswan, venerdì 05/11/2021
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